Lurve – Lurve/ Перемотка – Начало прекрасной дружбы

Francesco Amoroso per TRISTE©

Ho un’insana passione per l’indie “esotico” e per tutta la musica di matrice anglosassone, in particolare quella dei primi anni ottanta (e non poteva essere altrimenti) interpretata e suonata da band le cui sonorità dovrebbero, di norma, esplorare lidi sonori diversi.
Probabilmente è perché mi diverte e mi emoziona ascoltare artisti provenienti da tutto il mondo accomunati dalla passione comune per certi suoni: le chitarre scintillanti, le linee di basso profonde, le ritmiche incalzanti e le melodie cristalline.
Nel corso degli anni ho ascoltato e scoperto band filippine, indonesiane, cinesi, ceche, sudamericane (per non parlare di francesi e italiane) che sfoderavano con passione e notevole attitudine le loro canzoni a presa rapida, melodiche, malinconiche e sognanti, incuranti della distanza che le separava sia dalla terra che questi suoni ha visto nascere, sia dall’epoca in cui hanno preso forma.

La maggior parte di queste band canta in inglese, inevitabile lingua franca e punto di riferimento per chiunque abbracci questo tipo di sonorità, ma capita sempre più di frequente che alcune band più audaci si cimentino con la propria lingua madre.

In questi ultimi giorni del 2021 sono usciti due album che, in qualche modo, possono essere presi come paradigma dei due differenti approcci: il primo, che sposando i suoni nati in Inghilterra negli anni 80, ne abbracciano anche la lingua, e il secondo che, invece, pur rifacendosi in maniera evidentissima a certe atmosfere, preferisce però mantenere il proprio idioma. I due album sono tuttavia accomunati dalla provenienza: mi riferisco, rispettivamente, all’esordio dei russo-estoni Lurve e al terzo album (il primo che arriva anche fuori dai confini russi) dei russi Перемотка (Peremotka), nome traducibile con il termine inglese Rewind.

I Lurve sono in qualche modo una vecchia conoscenza di Triste©, visto che ci eravamo già occupati di The Fall, album d’esordio dei Gaarden, band sulle cui ceneri i Lurve sono nati. Pubblicato sull’etichetta australiana Library Group Records (la stessa del precedente progetto) l’album omonimo suona come un guitar-pop record degli anni ’80, anche se non tutto della attitudine shoegaze e dream pop che caratterizzava i Gaarden è andato perduto: ne è un esempio l’iniziale Right Moment, con un intro quasi post punk e una melodia che si apre briosa e cristallina, mentre le voci si sovrappongono in maniera molto efficace.
Ci troviamo subito dalle parti del miglior jangle pop, anche se non mancano angoli bui e certe sonorità un po’ inquietanti che rimandano ai plumbei palazzoni che sorgono oltrecortina.

Il trittico iniziale, completato dalla brillante I Hate Your Face e da We Are From Different Worlds, così come la frenetica Even If I’m Happy I’m In Pain, gioca o flirta (o rende omaggio, che dir si voglia) con l’estetica e le sonorità di band quali The Chamelons, Sad Lovers And Giant o The Wake, sempre in bilico tra melodie cristalline e cupezze post-punk.
Fake Friend, invece, sposta le influenze più avanti di qualche anno, con quell’intro di chitarra che, benché sporcato dalle distorsioni, potrebbe far saltare dalla sedia ogni amante dei Field Mice.

Altrove i suoni propendono più verso il lato oscuro, con ritmiche decisamente più secche e riff di chitarra dissonanti e brani quali Lurve o Small Talk si abbandonano tra le braccia della new wave più crepuscolare.
I Wish I Was Drunk (pt 1 & pt 2), con una prima parte per chitarra e voce e una seconda parte nella quale si lascia andare a un profluvio di chitarre incalzanti, chiude magnificamente un lavoro, nostalgico e passatista finché si vuole, ma che funziona perfettamente.
I Lurve non inventano nulla, giocano sornioni sull’effetto nostalgia, ma lo fanno con grande talento compositivo ed evidente sincerità e passione, dimostrando come, anche a distanza di trentacinque anni e di migliaia di chilometri, certe sonorità continuano ad avere un impatto su artisti giovanissimi, il cui background socio-culturale, probabilmente, non è poi così dissimile da quello dei giovani inglesi figli della working-class dei cupi anni ottanta.

Si deve alla francese Too Good To Be True la mia seconda scoperta “russa”: i Перемотка (Peremotka) arrivano da Ekaterinburg, appena a est degli Urali, alle porte della Siberia e hanno già all’attivo tre album.
Il più recente, Начало прекрасной дружбы (Nachalo Prekrasnoy Druzhby) era uscito qualche mese fa per l’etichetta di San Pietroburgo Sierpien Records, e la Too Good To Be True di Brest lo ripropone a fine anno (con una bonus track e una copertina decisamente più brillante della cupa originale).

A differenza dei Lurve (o dei ben più noti Motorama) i Перемотка usano la nobile lingua madre nelle loro canzoni, conferendo alle composizioni un certo fascino misterioso. Ascoltando i nove brani che compongono l’album si ha un po’ la sensazione che si provava quando da bambini si ascoltavano le canzoni in inglese: è impossibile capirne il significato, ma non si può fare a meno di cantarne i ritornelli, spesso irresistibili, scimmiottandone i suoni.

La musica del trio dei Перемотка, si nutre di sonorità new wave, post-punk, e synth-pop di evidentissima derivazione ottantiana.
Anche in questo caso non ci si trova di fronte a grandi innovazioni anche se sfido chiunque a ritrovare un brano new wave con un passaggio fischiato trascinante come la magnifica (e assolutamente impossibile da non canticchiare) Супермарио (Supermario) che apre l’album.
Sono sempre le chitarre a spadroneggiare, che siano più brillanti e sbarazzine come in К морю (K moryu) o più malinconiche e romantiche come nella successiva Как Тебя Покорить o in В Летнем Поле.
Le ritmiche impetuose ed efficaci, le chitarre luminose e sempre in movimento, la voce melodica e velata di malinconia, contribuiscono a fare di Начало прекрасной дружбы qualcosa di più di un’esotica curiosità: si ritrovano nell’album tutte le sonorità e le atmosfere inglesi degli anni ottanta, ma debitamente filtrate da un’attitudine e da una sensibilità che si potrebbe definire post-sovietica, fatta di celi plumbei, città grigie e tanta voglia di riscatto e di vita.
Il titolo dell’album si può tradurre con “L’inizio di una bella amicizia”.
E mi sembra che mai titolo sia stato più centrato e profetico.

In un periodo storico nel quale viaggiare è diventato quasi impossibile, per fuggire dalla claustrofobica vita che un po’ tutti ci troviamo costretti a sopportare, può essere la musica, ancora una volta, a offrirci una via d’uscita per esplorare (anche senza sentirci del tutto spaesati) nuovi orizzonti e nuove realtà.

 

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