
Francesco Giordani per TRISTE©
È notizia di pochissimi giorni fa l’improvvisa defezione del cantane e chitarrista Isaac Woods dalla band Black Country, New Road, a nuovo album praticamente appena uscito. La cosa dispiace doppiamente visto che Ants From Up There è un lavoro a tratti strabiliante, di quelli che ci accompagneranno per tutto l’anno e forse anche oltre.
Gli Inglesi si sono affrettati a dichiarare che il loro percorso non si fermerà, che proveranno ad esibirsi e a comporre nuova musica anche in assenza della voce, delle parole e del non trascurabile contributo inventivo di Woods. Il che prefigura, a meno di improbabili turnover nell’organico, un avvenire da ensemble “strumentale” che, considerate le radici ostentatamente colte della band, sempre a cavallo fra avanguardia minimalistica, nuovo jazz e meticciato post-rock, non appare poi del tutto incoerente o forzato.
Nello spazio apparentemente risicato di appena due album, il collettivo britannico ha comunque saputo trasferire alla giovane scena alternativa (inter)nazionale stimoli creativi la cui portata, a parer mio, apprezzeremo meglio nei mesi a venire. Qualcosa tuttavia, ad aguzzare lo sguardo, già si intravede. Penso ad un lavoro piacevolmente inclassificabile e forse anche assurdo come Let The Festivities Begin! delle Los Bitchos.
Queste quattro ragazze londinesi vantano in realtà una provenienza orgogliosamente pancontinentale (Australia, Turchia, Svezia e Sudamerica), suonano una musica esclusivamente strumentale e sono riuscite a convincere un mentore raffinato e cosmopolita come Alex Kapranos dei Franz Ferdinand a produrre il loro esordio. Serra Petale (chitarra), Agustina Ruiz (keytar), Josefine Jonsson (basso) e Nic Crawshaw (batteria) nella nota di presentazione firmata di proprio pugno su Spotify lasciano cadere dichiarazioni come: “We wanted to sound like Van Halen and Cocteau Twins – but from Turkey,”.
La loro è una party music continua, che frulla con orecchio tarantiniano surf, garage, exotica, cumbia e affini, psichedelia anatolica, musiche da pellicola di genere, modernariato finto-library.
Immaginate un Egyptian Reggae (anno di grazia 1977) del sempre geniale precursore Jonathan Richman, però lunga 37 minuti e 2 secondi, e avrete un’idea abbastanza precisa di questo curioso album che si può ascoltare nello stesso piacevolissimo modo in cui capita di osservare talvolta il movimento di pesci esotici all’interno di un acquario.
Uguali a questi ultimi le composizioni di Let The Festivities Begin! si perdono in un infinito, ipnotico incrociarsi di traiettorie che pigramente vanno e vengono. Un moto perpetuo, al tempo stesso cangiante e immutabile, che solo un’attenzione paradossalmente “deconcentrata” può cogliere in tutta la sua benefica aleatorietà.
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