Keaton Henson – House Party

Peppe Trotta per TRISTE©

È passato oltre un decennio da quando la pubblicazione di Dear rivelava la scrittura intimista e crepuscolare di Keaton Henson e da allora ogni tassello discografico prodotto è servito a dare conferma del suo indiscutibile talento. Canzoni sussurrate a cuore aperto soprattutto, ma anche sporadiche impennate elettriche e pura composizione priva di parole hanno scandito lo sviluppo artistico di un autore profondamente schivo ed introverso, incline ad una naturale malinconia.

Arriva quindi come una sorpresa – perlomeno parziale vista comunque l’attitudine ad esplorare territori inusuali –  l’annuncio di un nuovo album pensato come “un disco pop ottimista sulla depressione e sull’essere un artista”, l’idea di un concept che ruota intorno ad un alter ego vestito di rosa e svuotato da una sterile rincorsa alla fama, intento ad offrici i suoi sentimenti sotto forma di brani brillanti dalla presa immediata.

In effetti i quattro minuti iniziali di I’m Not There, imperniati su una coralità frizzante fatta di chitarre che incrociano la leggerezza di Murdoch & Co. con venature acide in odore di Paisley Underground, sembrano andare nettamente in questa direzione.
La sezione ritmica è marcata, gli arrangiamenti floridi, c’è quel brio già presente in Envy, singolo di lancio del disco, e che torna prepotente in Parking Lot.
Eppure è sufficiente arrivare alla successiva Rain In My Favourite House per scoprire che ad aleggiare su tutto è sempre quel tono sommesso permeato da tremula tensione a cui il musicista inglese fa da sempre ricorso.

La voce cerca maggiore luce e forza, ma le parole rimangono dolenti, ancorate ad un malessere inestinguibile che diventa prepotente quando in Late To You si torna all’essenzialità di un suono misurato guidato dall’andamento struggente degli archi.
L’abito è nuovo, sgargiante e la voglia di mettersi in gioco tanta, eppure la trasformazione rimane parziale, imbrigliata dalle trame di una scrittura elegiaca a cui Henson – fortunatamente – non riesce a sottrarsi regalandoci ancora ballate toccanti quali Two Bad Teeth e The Mine.
Un tentativo, forse un nuovo inizio, certamente un lavoro che incuriosisce senza tradire le certezze di un animo sensibile votato alla ricerca della bellezza.

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