Susanne Sundfør – blo​́​mi

Francesco Amoroso per TRISTE©

And the body is not apart from the spirit
The body itself appears every moment
And it’s constantly made of love in one of the purest forms
Gravity

Ve lo immaginate da queste parti un album che inizia con un brano di quasi quattro minuti, costruito su uno spoken word metafisico, che finisce immediatamente al numero due in classifica nella settimana del suo debutto? No?
Neanche io. E, probabilmente, è difficile da immaginare ovunque.
Eppure accade, in Norvegia (dove, a guardare un po’ le classifiche di vendita non è che poi siano messi tanto meglio che altrove).
In Norvegia Susanne Sundfør è una specie di stella della musica, magari non proprio una pop star, ma certamente un’artista che arriva regolarmente ai primi posti delle classifiche ad ogni nuova uscita. Con il nuovo blo​́​mi ha debuttato al secondo posto (anche se è rimasta in Top 40 solo per un paio di settimane). Sono sedici anni che Sundfør è sulle scene e, da altrettanti anni, i suoi album, spesso sia concettualmente che musicalmente complessi, a volte quasi ardui, riescono a scalare le vette della classifica senza bisogno di compromessi di alcun genere.

Il suo album d’esordio, nel 2007, probabilmente il più semplice e immediato della sua carriera, fu già un successo e debuttò al numero tre delle classifiche. Si trattava di un album costruito su brani pop pianistici non troppo complessi, ma certamente maturi per un’artista appena ventunenne. Partendo da queste premesse, da queste parti (ma un po’ ovunque, probabilmente) Sundfør avrebbe potuto costruire, un’ottima carriera di pop singer, ma evidentemente i suoi piani erano diversi. Così, tre anni dopo, decise di ritornare sulle scene con The Brothel, album complesso e articolato e dalle sonorità elettroniche decisamente più impegnative e disturbanti rispetto a quelle dell’esordio. Ciò nonostante fu un successo clamoroso, divenne l’album più venduto in Norvegia quell’anno, fruttò a Sundfør premi e riconoscimenti e la portò, appunto senza compromessi, a diventare tra le musiciste più note e ammirate del paese.
Un paio di anni dopo, The Silicon Valley, che andava ancora una volta in una direzione diversa dai lavori precedenti (un synth-pop sognante intriso di barocchismi), la riportò al numero uno in Norvegia e cominciò a far girare il suo nome anche all’estero e il successivo Ten Love Songs le regalò la definitiva fama (e, soprattutto, grande attenzione e riconoscimento da parte della critica) anche fuori dal suo paese d’origine.

Il tutto senza una minima concessione, senza levigare il proprio suono, senza ripetersi, andando sempre per la propria strada, incurante di ciò che il pubblico avrebbe voluto.
Il suo Music For People In Trouble, uscito nel 2017, è uno dei momenti più alti della sua produzione: messi da parte i synth, si concentra su un suono caldo e organico ed è pieno di canzoni (relativamente) semplici e struggenti. Uno degli album più intensi di quell’anno e un’ennesima dimostrazione di libertà artistica e ispirazione.
Sono passati sei anni da quel lavoro che (almeno ai miei occhi) aveva consacrato il talento davvero peculiare di Susanne Sundfør e, a parte la brevissima parentesi dell EP Self Portrait (uscito nel 2020) della sopraffina musicista norvegese, probabilmente anche a causa della maternità, si sono quasi perse le tracce.

A interrompere il lungo silenzio, è arrivato ad aprile blo​́​mi che riprende, in qualche modo, quanto già iniziato con Music For People In Trouble (ma che si può dire si riallaccia anche al suo esordio). Tuttavia il suono di Sundfør non è mai stato così puro, così sublime e forse mai prima d’ora l’artista norvegese aveva toccato vette compositive così alte.
Ispirandosi esplicitamente alle sonorità seventies di cantautrici come Joni Mitchell, Laura Nyro e Carole King, Sundfør ne sublima l’afflato spirituale e scrive un album incompromesso, fatto di ballate celestiali e di esperimenti sonori spiazzanti ed arditi.

Tra le note dei dieci brani che lo compongono c’è spazio anche per sonorità quasi da musical, in ballate come Ashera’s Song e Rūnā, ma il fulcro del lavoro risiede in canzoni che rimarranno a lungo, come il commovente valzer Fare Thee Well, forse la break up song più serena mai scritta -con un incoerente, ma fantastico, inserto di sassofono-, la ballata pianistica Náttsǫngr, semplice ed efficacissima, elevata da una performance vocale straordinaria, l’incredibile Leikara Ljóð che inizia con il canto degli uccelli, si sviluppa con una leggiadra melodia senza parole e aumenta di intensità fino a trasformarsi quasi in un gospel. o -su tutte- la meravigliosa, poetica e trascendente Alyosha, capolavoro assoluto dell’artista scandinava (e uno dei brani più belli -stavolta non vale la pena di cercare aggettivi diversi- degli ultimi decenni), struggente dichiarazione di amore eterno: “They say life’s no point, so why bother? / Love yourself more than any other/ But that is not what I will live for, no/ That is not what I will live for/ It’s you, it’s you, it’s you/ Alyosha/ Yeah, you are all that I will live for, my love“.

L’album contiene anche tracce decisamente più sperimentali che, dopo tanta leggiadria e perizia compositiva, risultano decisamente spiazzanti: oltre al brano di apertura, Orð Vǫlu, c’è Ṣānnu Yārru Lī, dalle ritmiche frammentate e con uno spoken word cantato in tedesco e la conclusiva brevissima Orð Hjartans (“If the heart has a word, what would it be?/ And, sitting with this, I’ve found that the word in the heart is “yes”/ It’s “yes” to everything“) quasi incongrua nella sua singolarità.
Ispirato e dedicato alla nascita della figlia -a cui si rivolge nella magnifica title track (fioritura in lingua norrena): “Cherish the gift that your mother delivered/ From the ashes of sorrow, we will rise again”)- e dedicato al nonno, il teologo e linguista Kjell Aartun (con cui appare, bambina, in copertina), blo​́​mi è un album complesso e a tratti concettuale -non è un caso che nel brano di apertura e in quello di chiusura appaia in voce Eline Vistven, musicista ma, soprattutto, terapeuta- ma che, nei suoi momenti più puri, risponde con straordinaria efficacia e coerenza allo scopo per il quale è stato scritto dalla sua autrice: «Voglio che quest’album sia un antidoto per l’oscurità che oggi domina la nostra cultura; voglio mostrare che c’è un altro modo di vedere la realtà, se si ha il coraggio di sperare in un mondo più bello.».
Con canzoni come Alyosha nella testa, il mondo è, certamente, almeno un po’ più bello.

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