Spring Attitude 2023 @Cinecittà – Roma 23 – 24 settembre 2023

Ogni estate o principio di autunno ricomincia l’eterno dibattito: l’Italia, oltre a essere o non essere tante cose, è un paese per festival? Intesi come i festival musicali che noi amanti del “suono” abbiamo amato sin dal giorno in cui abbiamo messo piede nel primo di questi mega eventi che, in maniera più o meno omogenea, costellano il continente europeo (e non solo, chiaramente).
E il responso con percentuali quasi bulgare è sempre lo stesso: un secco e dirompente no, con buona pace nostra e dei promoter.
Credo si debba ormai arrivare ad ufficializzare una differenziazione che in qualche modo indora la pillola che allevii la nostra voglia di eventi di un certo tipo: l’Italia è un paese per un certo tipo di festival. E lo Spring Attitude 2023 non fa altro che confermare questa realtà. Che non è poi amara, affatto, se vogliamo.

Dobbiamo scordarci i grandi circhi modello (anzi brand) Primavera Festival o Glastonbury o anche Roskilde, Lowlands ecc ecc. Dimentichiamo i voli pindarici intercontinentali alla Lollapalooza o il cinema in diretta streaming chiamato Coachella. Qui da noi non esisteranno (forse) mai più, per tonnellate di motivi che non stiamo qui a ripetere. L’Italia può essere, anzi già lo è, terra fertile per piccoli eventi festivalieri formato boutique più a misura d’uomo. Meglio o peggio? In alcuni casi non c’è bianco o nero, c’è la sfumatura. A meno che la terra fertile non venga inaridita dal caldo dell’assenza di politiche programmatiche, più pubbliche che private. Ma è un’altra storia, e speriamo anche in un altro futuro.

Spring Attitude si è presentato alla sua seconda edizione negli studios di Cinecittà in una configurazione diversa rispetto allo scorso anno. Palchi spostati in un’altra zona del tempio del cinema italiano, meno scenografica, capienza maggiore, un po’ bruttina la presenza di un palco accanto all’altro. Ma, appunto, tutto molto “confortevole”: distanze ridotte, niente maratone per raggiungere un palco rispetto ad un altro e da lì il bar o i servizi o l’area food. E sì, se parliamo di un festival, questi sono aspetti importanti, essenziali, non contorni. Oltre alla musica, l’esperienza deve essere di un certo tipo, o quantomeno piace pensarlo a noi quarantenni avventori di una terra pensata originariamente solo per chi è nel fiore dei vent’anni.

Tutto migliorabile: app per ricaricare i braccialetti per procacciarsi cibo e bevande che va in tilt e quindi via con le solite file disordinate (in Italia gli account manager di servizi simili si vede che lavorano alla grandissima, altrimenti non si spiega la nostra passione per braccialetti, token e complicazioni simili), attrattive extra musicali ridotte al minimo, anzi allo zero. Ma l’impressione è che la lezione appresa dai mega circhi che citavamo prima è stata in qualche modo appresa “in piccolo”, a modo nostro. Perché sì, questo un festival lo era, non una rassegna di una serie di concerti spacciata per festival.
Spring Attitude ha una sua personalità, estetica, di forma e sostanza. Può piacere o non piacere, ma esiste a Roma da tanti anni e ora è questa cosa qui. E funziona, i numeri lo dimostrano.

E questi numeri potrebbero essere “costruiti” con una sostanza dedicata più alla ricerca musicale che al nome facile? Assolutamente sì. L’oggettività non esiste in questo campo, tutto alla fine è relativo.
Che lo Spring Attitude in passato abbia presentato lineup più ricercate, dal mood forse più internazionale di questa edizione è verità. Ma i tempi sono cambiati, parlo anche di tessuto economico e sociale, cose da prendere in considerazione seriamente quando si vuole tentare l’avventura di un evento che raccolga circa 15.000 persone a serata. Avendo assistito solo alla serata di sabato 23 l’impressione è stata rafforzata dalla realtà: dopo diversi act locali più “di nicchia” (da Archivio Futuro a Maria Chiara Argirò), ecco i Parbleu (filiazione del batterista dei Nu Genea) con i loro ritmi caribico-partenopei a riscaldare gli astanti, a precedere i Bud Spencer Blues Explosion con il ritorno sui palchi nella loro configurazione tipo, un presente più desert rock a tratti e meno bombastico, con tanto di onnipresente cover dei Chemical Brothers ad inizio set.

I Verdena fanno il loro show, inimitabile, quantomeno quando inizia a cantare Alberto Ferrari, in un set a metà strada tra le avventure più recenti del trio (in quattro sul palco) da Wow in giù e i vari classici d’annata, letteralmente perché ai tempi di Valvonauta e Dentro Sharon il sottoscritto era a metà del percorso liceale oramai.

Se c’è stato qualcosa da migliorare in questa serata è stato lo stacco brutale tra “rock” e “non rock”: dopo il set canonicamente sonico e al furor di chitarre bianchissime, ecco l’opposto totale: Acid Arab e il loro coinvolgente (e alle mie orecchie oggi nel 2023 molto più coinvolgente di un set dei Verdena) spettacolo fatto di techno e inserti classici arabi. Una formula adrenalinica, forse ripetitiva dopo un po’, ma che funziona.

Come funzionano sicuramente per i tanti che il liceo lo hanno (forse) da poco finito e vanno in visibilio per la techno, quella da balera di Chloé Caillet e della superstar dal singolone di platino (It Goes Like) Nanana, cioè Peggy Gou. Sottofondo sonoro che per una “serata” funziona, e sì, sicuramente da apprezzare il fatto di aver portato una popstar (perché quello è) come Peggy Gou. Per noi “amanti del suono” non sarà come aver visto Jenny Hval nella sala di apertura del Maxxi (ecco un ricordo a caso di un’edizione speciale di Spring Attitude), ma come dicevo prima: l’oggettività non esiste, tutto è relativo.

All’anno prossimo, Spring Attitude, vediamo come ci sorprenderai.

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