Le firme di TRISTE©: il 2023 di Peppe Trotta

Altro gettone, altro giro. Tocca al 2023, ormai in chiusura, essere riassunto, ovviamente dal punto di vista strettamente musicale. Un resoconto personale, figlio degli ascolti possibili e di peculiari inclinazioni, quindi senza pretese di poter essere minimamente esaustivo o specchio della produzione di un intero anno, anche solo di un ristretto ambito.

Non posso non iniziare da Daniel Lopatin visto che il decimo tassello firmato Oneohtrix Point Never è qualcosa di semplicemente strepitoso. Again è un vortice di surreali forme musicali in alta definizione, una folle sinfonia elettronica i cui tredici movimenti rappresentano altrettante possibili combinazioni di melodia e rumore, programmazione digitale e partiture chitarristiche connesse secondo regole immaginabili soltanto da una mente geniale.
Un altro lavoro fondato sulla manipolazione digitale che mi ha stregato è Nekkuja di Marina Herlop, disco innervato sulla sperimentazione di una forma canzone destrutturata, che non rinuncia ad essere accessibile, confluendo in un pirotecnico pop d’avanguardia altamente godibile. Peculiare è l’utilizzo della voce quale mera componente ritmico-armonica priva di contenuto semantico, scelta condivisa da Daniela Pes per il suo splendido album di debutto per la Tanca di Incani. A variare è il substrato sonoro che in Spira cerca costantemente un’intersezione atmosferica tra antico e futuribile.

Il 2023 ha visto il ritorno convincente di alcuni marchi storici e su tutti spicca l’ottima proposta degli Slowdive il cui suono inconfondibile si tinge di maggiore luce ed ottimismo sfociando in Kisses in una irresistibile forma pop mai esibita. Accanto gli alfieri dello shoegaze troviamo il post-rock dei Sigur Rós tornato ai fasti della loro stagione migliore, i Blur diventati definitivamente adulti e soprattutto quell’inatteso colpo al cuore prodotto dall’album postumo del mai troppo compianto Mark Linkous/Sparklehorse.

Altri due lavori ad alto tasso emozionale, legati da un comune fattore di base determinato da un lutto importante, che mi hanno rapito ascolto dopo ascolto sono Javelin di Sufjan Stevens – finalmente di nuovo alle prese con il suo cantautorato migliore – e The Greater Wings di Julie Byrne. Da citare poi in ambito songwriting ci sono in|FLUX di Anna B Savage, meno obliquo dell’esordio ma di notevole intensità, il concept dolente di Gut del sempre valido Daniel Blumberg e l’incantevole Goodbye, Hotel Arkada di Mary Lattimore.

Prova complessa e di impatto enorme è quella composta da Kali Malone con la preziosa complicità di Stephen O’Malley e Lucy Railton, paesaggio drone profondamente immersivo capace di offrire un’esperienza d’ascolto totalizzante. Ugualmente fondato sulla complicità dei suoi attori è l’omonimo debutto di The Cry, nuovo progetto di Christine Ott con Mathieu Gabry e Pierre-Loïc Le Bliguet che fonde improvvisazione, avanguardia e jazz. Ottimo risultato per un altro sodalizio è Senzatempo di  Ozmotic / Fennesz, incastro riuscito tra la materia glitch-elettronica del duo italiano e le incursioni chitarristiche del maestro austriaco.

In chiusura è doveroso dare spazio all’idm intimista di Loraine James cristallizzato nel suo ammaliante Gentle Confrontation, il post-punk cupo e diluito proposto dai Facs in Still Life In Decay, le buone prove di James Blake, Sprain, Tim Hecker, Pj Harvey e Swans e dei nostrani Andrea Cauduro, DAMĀVAND, Satan Is My Brother, Caterina Barbieri, Bono / Burattini, Bellujno, Roberto Mares e Caputo.

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