Anna B Savage – in|Flux

Francesco Amoroso per TRISTE©

At lunchtime I bought a huge orange—
The size of it made us all laugh.
I peeled it and shared it with Robert and Dave—
They got quarters and I had a half.
And that orange, it made me so happy,
As ordinary things often do
Just lately. The shopping. A walk in the park.
This is peace and contentment. It’s new.
The rest of the day was quite easy.
I did all the jobs on my list
And enjoyed them and had some time over.
I love you. I’m glad I exist.

(Wendy Cope – The Orange)

Fino a qualche giorno fa non avevo mai sentito parlare di Wendy Cope. Poi una breve citazione in un brano del secondo album di Anna B Savage, che condivide il nome proprio con la poesia in esergo, mi è bastato per aprirmi un mondo.
La poesia è spesso percepita come una forma letteraria ostica e antiquata, fatta di parole difficili, metafore oscure e argomenti dolorosi e pesanti. Wendy Cope, invece, dimostra con le sue liriche dell’ordinario, con le sue frasi dirette e i suoi sentimenti semplici che, come tutte le forme d’arte, anche la poesia può essere fruibile e universale.
Non credo che la citazione di Wendy Cope da parte di Savage sia casuale perché ciò che la poetessa del Kent è riuscita a fare con la poesia, la londinese trapiantata a Dublino, Anna B Savage, riesce a fare con la musica.

Dopo l’uscita di A Common Turn, il suo straordinario esordio del 2021, Anna B Savage deve essersi fatta più di una domanda. È, per trovare delle risposte, personali e artistiche, ha lavorato duramente, sia su se stessa che sulla sua musica. E, alla fine (o nel bel mezzo, questo non è dato di saperlo) di questo percorso, è arrivato in|FLUX che, in contrasto con il debutto, rende la proposta artistica di Savage molto più fruibile e immediata, più facilmente empatica, ma non per questo meno interessante o coraggiosa.
Figlia di due cantanti lirici, l’artista londinese è evidentemente avvezza a scelte difficili e controcorrente: così come con la voce che il DNA le ha donato, avrebbe potuto seguire le orme dei genitori e, invece, si è lanciata nell’agone della musica leggera, allo stesso modo, dopo un album – prodotto da un brillante e originale musicista come William Doyle – nelle cui canzoni,(tese, ansiogene e brutalmente sincere) veniva esaltata la sua voce teatrale e personalissima e la sua devastante potenza emotiva, ha deciso di percorrere nuove strade e rendere le sue composizioni più lineari e immediate, più pop, semplicemente.

Anna B Savage ha vissuto, nel periodo che è intercorso tra questi due album – entrambe magnifici – situazioni difficili che l’hanno portata ancora una volta a mettere in discussione sia la sua arte che la sua vita personale. Ma da questo travaglio è uscita rinfrancata, rigenerata.
Le sue canzoni erano sempre state provocatorie, laboriose e stimolanti, sia nei nei suoni che nei testi, poiché ponevano domande e, incapaci di fornire risposte ma in qualche modo esigendole, mettevano l’ascoltatore in difficoltà e in imbarazzo. In in|FLUX, invece, Savage non formula più domande e non pretende risposte, ma si limita – mettendosi del tutto a nudo con la propria vulnerabilità – ad accettare che le complessità della vita e dei rapporti umani continueranno a porci di fronte a questioni che potrebbero rimanere senza soluzione.
Non che non contempli più il dolore, la perdita o le inevitabili complicazioni dell’amore, e non che le sue canzoni siano meno urgenti, potenti e a tratti devastanti, ma, semplicemente, Savage non è più in ansia, in conflitto con se stessa e ha imparato ad apprezzare l’incertezza e ad abbracciare il proprio modo di essere.

E’ proprio il brano finale, The Orange (il cui titolo è preso a prestito dalla poesia di Wendy Cope) a essere la chiave di lettura dell’album: “I don’t wanna jinx it/ but if this is all that there is/ I think I’m gonna be fine/ If this is all that there is/ I’m a bit of a magpie/ but I collect memories – moments that shine just for me” afferma Savage nei primi versi e in questo suo accettare se stessa e accettare il mondo che la circonda risiede tutto il ribaltamento di prospettiva dell’artista inglese.
E tale ribaltamento, tale ritrovata armonia (che, sia chiaro, nulla a a che vedere con una resa o con un’accettazione acritica delle storture del mondo) si riflette nell’atmosfera di in|Flux: tutti e dieci i brani che sono andati a comporre questo “difficile secondo album” suonano, così, incredibilmente a fuoco e compiuti, coraggiosi, originali e stimolanti senza perdere nulla della loro immediatezza.

Merito, certamente, della consapevolezza personale e artistica di Anna B Savage, ma anche del duro lavoro compiuto in studio dove, coadiuvata dal geniale produttore Mike Lindsay (membro fondatore dei Tunng e nei Lump insieme a Laura Marling), ha trovato la forma migliore per presentare le sue canzoni pop piene di temperamento e personalità, peculiari e caratterizzate dal suo timbro vocale unico, operistico e teatrale.
Così, diversamente dall’album d’esordio, le composizioni di in|FLUX, risultano più accessibili e estroverse, nonostante l’utilizzo di una strumentazione decisamente insolita in ambito folk/pop (kalimba elettronica, clarinetto, sassofono) e le trovate sonore e ritmiche decisamente ricercate e originali. In questo senso è emblematica la straordinaria title track: inizia con un’apertura gelida e atmosferica, cresce con un cantato emotivo, vulnerabile, tranquillo e introspettivo per poi spezzarsi con l’intervento di ritmiche sintetiche ballabili e suoni elettronici, mentre Savage si produce in una performance vocale travolgente che esprime sicurezza di sé e voglia di lasciarsi andare (“I want to be alone/ I’m happy on my own/ believe me/ I want to be alone/ I thought I’d made that known/ Please believe me/
I want to, I want to be alone/ I am free
“).

La sicurezza di sé e l’accettazione delle proprie contraddizioni è anche il tema centra di Feet of Clay (“I know I said I wanted you but I’ve got feet of clay/ I know I said I wanted you/ but that was yesterday.”), mentre la superba ballata folk Hungry (forse il brano arrangiato in maniera più sobria) manifesta una tranquilla vulnerabilità e la consapevolezza che il desiderio non deve corrispondere necessariamente al bisogno (“thought I’d feel lonely/ but that’s not true/ What’s true and what I feel/ is hunger for more time with you/ I’m hungry”). Altrove, come in Say My Name, Savage racconta di un rapporto di coppia difficile e lo fa con desolazione, ma senza disperazione (“And then you ask me, ‘Do you think it’s hard to love you?’ I nod quickly, yes, yes I think that’s true”), anche se un finale in crescendo, nel quale si affastellano suoni e strumenti, trasmette ansia e angoscia (“Did the wind howl/ or did I?/ Something’s changed/ Quick, somebody say my name/ Oh, Anna.“).

L’intimità è centrale in Crown Shyness, (vale la pena di scoprire da che cosa derivi il suo titolo: “Some trees grow up and up and up/ but don’t touch at the top/ Cracks between their branches/ Crown shyness.“) che descrive senza alcuna ironia e con grande trasporto una situazione di amicizia che potrebbe trasformarsi in qualcosa di diverso (“I guess we’ve grown up the same way too/ and I’m too shy to reach across to you/ You’re in my dreams an awful lot/ at the moment/ and if I know what that means/ it means this dance is over for us one way or another“), mentre in brani come Pavlov’s Dog (“He said such dirty and kind things to me/ Said I had strength in my sexuality/ Kneaded his hands into my skin/ Like he needed me, and I needed him“) caratterizzata da un sospiro affannoso e sincopato in loop, e Touch Me (“Touch me, please. Pull my hair, caress my cheek. One more graze that lingers my mouth would part to welcome those fingers.”) Savage non ha alcuna remora a raccontare, senza giri di parole, la propria sessualità e il proprio desiderio.

E se il primo singolo che ha preceduto l’album, The Ghost, con la sua ritmica incalzante e il suo crescendo drammatico, racconta di un’ossessione amorosa (“What am I meant to do/ With how much I loved you?/ It’s everywhere It’s under my nails/ It’s in my hair/ Stop haunting me, please/ Just set me free, please/ Please“) e la delicatissima I Can Hear The Birds Now parla di perdita (“But some things are clearer:/ I can hear the birds now/ I tried to write the perfect postcard/ that I won’t send to you ‘coz I know how you feel-/ I haven’t heard from you“), è la già citata The Orange a chiudere l’album su una nota di accettazione e sollievo: “Nowadays I like my lovely soft belly, and my soft sensibilities: the wobbly warmth within me. I think I’m gonna be fine, If this is all that there is“.

La sensibilità e la sicurezza con cui Anna B Savage scrive i suoi testi la rendono una delle più straordinarie songwriter della sua generazione e questa sua capacità comunicativa, questo suo dono per le parole, permette all’ascoltatore di entrare ancora più in sintonia con i suoi sentimenti. Se a questo si aggiunge una voce unica, direi indimenticabile, e degli arrangiamenti inventivi e misuratissimi, risulta chiaro che, con in|Flux, ci troviamo di fronte a un album per il quale usare superlativi risulta quasi superfluo.

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