Liam Gallagher John Squire – Liam Gallagher John Squire

Francesco Giordani. Caro Francesco, ti scrivo dopo aver ascoltato, in auto, e dall’inizio alla fine, senza pause (una sì, lo confesso, ma solo per controllare l’esito infausto di Bayern Monaco-Lazio…), questo disco dei nostri beniamini manchesteriani. La mia destinazione era l’aeroporto di Fiumicino, dove i miei genitori appena atterrati mi attendevano e il caso ha voluto che, per via di alcuni non meglio precisati lavori, ad un certo punto il tragitto comportasse un’imprevista deviazione per Trigoria (sigh…). Questo ha fatto sì che, a mano a mano che mi addentravo nell’ascolto delle canzoni dell’album, la mia vista si perdesse nel buio di strade tortuose, mai battute prima, spesso dissestate o pochissimo illuminate, scandite da curve a gomito e improvvisi avvallamenti, in un’identificazione ai limiti dello psicomagico con i riff bizantini, piacevolmente debordanti, “ipnagogici”, di John Squire.

Squire che è poi l’autore di tutti i pezzi a cui Gallagher ha ben volentieri prestato la propria voce, come sappiamo, tornando ad essere in modo esclusivo quello per cui ai tempi gloriosi degli Oasis in molti (fra questi anche il sottoscritto) lo hanno maggiormente amato ovvero: il cantante. Ecco, se questo album ha almeno un merito, esso è ribadire la grandezza di una voce rock inconfondibile, anche più e meglio degli ultimi due lavori solisti del Nostro (che comunque io non butto nella pattumiera, pur preferendogli As You Were). Può piacere, può non piacere, ma la voce di Liam Gallagher è ormai, come si suol dire, Storia. Meglio: è il suo contributo specifico alla Storia della musica.
Senza nulla togliere alla vena compositiva di Squire, queste nuove canzoni, cantate da un altro (persino dallo stesso Ian Brown, che pure avevamo apprezzato nel magnifico singolo degli Stone Roses All for One del 2016), risulterebbero meno… magnetiche. Esiste secondo me una “mistica” della voce e quella di Gallagher ne è un esempio tangibile.
Però sto divagando, vorrei chiacchierare con te del disco a pochi giorni della sua uscita. Ci tengo solo a dire che, benché l’album sia stato occasionato dalla partecipazione di Squire al concerto celebrativo di Knebworth Park del 2022, Gallagher aveva già collaborato nel 1997 con il chitarrista in quella che è paradossalmente anche la prima canzone in cui Liam viene accreditato come co-autore, vale a dire Love Me and Leave Me dei Seahorses. Un esordio non propriamente memorabile ma comunque decoroso che le canzoni di questo nuovo sodalizio a mio parere complessivamente riscattano.
Ecco, le canzoni. Ti sono piaciute?

Francesco Amoroso. La tua domanda, secondo me, coglie nel segno. Un possibile discorso intorno a questo album può -e deve- essere imbastito proprio intorno alle canzoni, perché, se lo consideriamo lasciando da parte tutta l’epica del Britpop e la mitizzazione dei personaggi – per quanto io abbia amato gli Oasis, sono convinto che per meriti strettamente musicali, Squire sia un artista decisamente superiore a Liam, benché non abbia neanche un briciolo del suo carisma- rimangono proprio le canzoni. E, dal mio punto di vista è proprio lì che “casca l’asino”.
Capisco che ascoltare Liam Gallagher John Squire (un piccolo sforzo creativo per trovare un titolo all’album avrebbero anche potuto farlo…) prescindendo dalla storia dei suoi autori sia complicato, però alla fine, quando prestiamo loro orecchio e attenzione, sono le canzoni che devono convincerci e a me non convincono molto. Prendi il brano d’apertura, Raise Your Hands, con un arrangiamento abbastanza banale (anche quegli inserti elettronici lasciano un po’ il tempo che trovano), un ritornello che si dimentica subito e una coda chitarristica da dinosauri del rock (e non mi riferisco ai Dinosaur Jr., naturalmente).
Altrove, ammetto, va un po’ meglio: già Mars To Liverpool mi sembra più accettabile (ma non la definirei memorabile) mentre One Day At A Time alza un po’ l’asticella. Peccato che con il blues da pub (i detrattori chiamavano il Britpop “Lad Rock” (anche se forse per gli Oasis, che erano genuinamente working class, la definizione era un po’ stiracchiata) di I Am A Wheel e Love You Forever o il rock’n’roll divertente ma banalotto di You’re Not The Only One, si torni al compitino. E, lo ammetto, Squire mi sembra decisamente più quello dei Seahorses (o di Second Coming se voglio essere gentile) che quello dei primi Stone Roses. Paradossalmente (visto che è strato poco apprezzato anche dai fan) preferisco (la parte iniziale di) Just Another Rainbow, che scimmiotta gli Oasis e li mescola, piuttosto abilmente, con le sonorità e le ritmiche degli Stone Roses, a brani che mi danno l’impressione di essere scritti da un vecchio rocker, piuttosto che da un pioniere del suono degli anni 80-90. In questo senso il decennio che distanza Squire da Gallagher si sente in maniera evidente: forse che, finito lo slancio creativo, il buon John si sia rifugiato nei miti della sua infanzia e prima giovinezza? A tratti, nella sua chitarra e nelle sue composizioni -oltre a tanto mestiere- ci sento più Hendryx, Jimmy Page o Jeff Beck che gli Stone Roses. Non ti pare?

Francesco G. Concordo innanzitutto sull’eccessiva apoditticità (ad essere buoni) del non-titolo nonché sulla veste grafica non so bene fino a che punto volutamente stropicciata del disco, degna del volantino di un discount, tanto più sorprendente se pensiamo al fatto che Squire è un valente pittore con i pennelli oltre che con il plettro. Leggo però che ci troviamo di fronte al primo album ecosostenibile della Warner (argh!) e quindi me lo faccio passare come un atto di minimalismo zen, che ben si intona al temperamento meditativo e silente del chitarrista. Delle canzoni del disco invece mi dico globalmente soddisfatto, non mi aspettavo nulla di più (ma neppure di meno) di quello che ho avuto: infinito mestiere, certo, ma anche passione, gioco, amicizia e qualche riverbero mitico. Di questo album, in un certo senso, apprezzo la natura paradossalmente (visti i nomi in copertina) minore, se riesci a capirmi. Voglio dire, se Yorke e Greenwood hanno escogitato lo stratagemma The Smile per, nomen omen, tornare a sorridere facendo quel kraut-jazz-rock che gli pare, in liberissima licenza dai patemi del marchio maggiore per cui da sempre li celebriamo, non vedo perché queste due vecchie lenze mancuniane -no, non voglio definirli boomer, termine per me concettualmente cacofonico- non possano fare altrettanto, passando in rassegna l’albo delle proprie affinità elettive, fra blues, psichedelia e glam-rock, macinando chorus a comando, assoli interminabili, passaggi d’accordo non certo imprevedibili. Ammettiamolo: meglio questo disco che l’ennesima esosa ristampa deluxe in vinile blue indigo violet (rubando qualche pigmento dalla tavolozza della svettante Just Another Rainbow) o, peggio, una versione aggiornata, magari pure ri-arrangiata, del vecchio catalogo dei due. Per una volta, voglio rallegrarmi della reunion immaginaria di una band che non è mai esistita né potrà mai esistere.
Per il resto sono in linea con te, nel senso che il nuovo repertorio tanto nuovo non è sebbene, per me, si tratti di una precisa scelta di stile più che di mancanza di ispirazione o di rapace fan service. Squire a mio parere voleva incidere un album con tutto l’essenziale e nient’altro, fuori dal tempo e dalle mode, a tratti anche spartano, un’operetta “di genere” in un certo senso, cucita su misura per la voce di Liam Gallagher.  Ascoltando Mars to Liverpool, Raise Your Hands, Love You Forever And Ever, You’re Not The Only One, One Day At A Time (per citare le mie preferite, da notare i titoli da “vecchie canzoni” d’epoca, senza doppi o tripli fondi metaforici o citazioni enigmistiche nascoste), ascoltando questi pezzi, dicevo, ti ritrovi al tavolo di un pub, la birra in una mano, una ciotola di pistacchi nell’altra, negli occhi gli ultimi minuti del derby City-United, a chiacchierare del più e del meno con qualche compagno o compagna di amabile sventura. Nulla di straordinario, d’accordo, eppure è questa la materia di cui sono fatti buoni due terzi della nostra vita su questo pianeta, a pensarci. Una rassicurante, forse poco eroica, normalità, che personalmente baratterei con ben poche altre cose. Here comes that feeling, here it comes again, e forse non se ne andrà mai, insomma…

Francesco A. Innanzitutto ci terrei a precisare (per orgoglio generazionale…) che Squire È un boomer, mentre Liam Gallagher è fieramente Gen X! Ciò detto, lungi da me sminuire l’epica della normalità. Anzi: riuscire a creare arte dal quotidiano, senza dover ricorrere troppo a espedienti drammatici (o drammaturgici) o rifugiarsi nella narrazione di una presunta straordinarietà (che a volte è valida -“this love is different, because it’s us…”- a volte decisamente meno –“siamo solo noi che andiamo a letto la mattina presto…”) è per me esercizio sommamente complesso e per ciò stesso apprezzabilissimo. Del resto, come dici tu, sono le situazioni più banali a essere la parte preponderante delle nostre vite di borghesi privilegiati ed è anche giusto che ci siano cantori della nostra epica (molto) minore. Però qui l’espediente funziona solo a tratti e una canzone come I’m So Bored, nella quale Liam elenca, nel suo modo da simpatico (?) sbruffone, le cose di cui è stufo, mi lascia un po’ freddo. Più che cantori del quotidiano spesso finiscono per sembrare vecchie rockstar annoiate (che sia un pregio per noi che amiamo la sincerità?).
Che poi i testi sono tutti di Squire, ma scritti per Gallagher in modo quasi mimetico, il che non so se è una dimostrazione di mestiere o una paraculata (sarà la prima pseudo parolaccia che scrivo su TRISTE©?).
La produzione affidata, come gli ultimi LP solisti di Gallagher, a un vecchio volpone del rock patinato e del pop come Greg Kurstin (Gorillaz, Foo Fighters, Adele), contribuisce, a mio parere, a normalizzare un po’ il suono che è sempre sporco il giusto, rock quanto basta e prontissimo per le arene che sicuramente i due -anche con merito, vista la loro storia- riempiranno.
Voglio, però, chiudere, su una nota lieta: la brevissima Make It Up As You Go Along con il suo incedere da marcetta beatlesiana è deliziosa e quando Liam canta “Thank you for your thoughts and prayers and fuck you too” (che poi è un po’ quello che verrebbe da dire a questo album, dopo averlo ascoltato con affetto) la sua cialtronaggine non può che farcelo amare.

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