Lo Moon – I Wish You Way More Than Luck

It is unimaginably hard to do this, to stay conscious and alive in the adult world day in and day out. Which means yet another grand cliché turns out to be true: your education really IS the job of a lifetime. And it commences: now.
I wish you way more than luck.
(David Foster Wallace, This is Water)

Prende le mosse dalla celebre clausola di un’altrettanto celebre orazione accademica di David Foster Wallace (non l’aveste già letta, potete agevolmente recuperarla qui, ne varrà la pena), il terzo lavoro in studio di Lo Moon, quartetto americano da tempo acquartierato a Los Angeles che, a dispetto di un esordio prodotto da Chris Walla nel 2017, un contratto discografico con la Columbia e palcoscenici condivisi in questi anni con nomi di prima grandezza come Ride, Phoenix, Glass Animals e London Grammar, ha sinora mantenuto un profilo piuttosto defilato, aristocraticamente distante dalle ribalte mediatiche più ambite.

Cercando in rete qualche commento che mi aiutasse a riflettere meglio sul senso solo apparentemente apodittico delle parole di Wallace, mi sono imbattuto in un’osservazione illuminante: “The quote “I wish you way more than luck” encapsulates a profound sentiment that transcends the conventional notion of luck as a passive force determining outcomes. At its core, this phrase expresses a heartfelt desire for someone’s success, well-being, and fulfillment, extending beyond the arbitrary whims of chance. In delving into its layers of meaning, one discovers a nuanced perspective that challenges the simplistic reliance on luck as the sole arbiter of fortune.”

Non potrei trovare nulla di più calzante per descrivere il “cambio di passo”, per così dire, che felicemente scandisce le dieci canzoni di I wish you way more than luck. I Lo Moon hanno scagliato il loro estro ben al di là dei capricci imperscrutabili della fortuna, impadronendosi di un destino che sa essere finalmente all’altezza delle loro smisurate ambizioni. A partire già dallo stregante, mesmerico singolo Water, rispetto al quale il cantante e compositore Matt Lowell rivela, “All the songs on our new album were inspired by the moment I found my artistic voice as a teenager, I started Water with the riff on an acoustic guitar. It really reminded me of something I might play when I was sixteen. It felt whimsical and nostalgic and when the band jumped in it felt like refreshing new ground for us”. 

Come a dire: un ritorno al nucleo costituente dei vissuti più remoti che apre tuttavia alle possibilità pressoché illimitate di una rigenerazione espressiva, alla liberazione di una voce nuova e primitiva al tempo stesso. E se la prima parte di Evidence seduce con i suoi sottili richiami al più tardo Mark Hollis, il crescendo del suo secondo atto lascia in tutta franchezza sbalorditi per coesione, controllo formale, potenza e grazia d’insieme.
Le rispondono le non meno strabilianti Connecticut e Waiting A Lifetime, duplice capo d’opera e sintesi perfetta dell’ineffabile spirito che informa il disco nel suo complesso, sempre in bilico fra aereo pop di ricerca, sofisticata canzone d’atmosfera e art-rock di marca britannica, fluttuante nell’arcipelago di Talk Talk, Japan, Brian Eno, Cocteau Twins, Blue Nile (sentite When The Kids Are Gone e misuratene l’abissale distanza rispetto alle parodie presuntuosamente goffe dei 1975), Radiohead, Elbow, Wild Beasts.

Rivolgo dunque ai lettori l’eponimo augurio dei Lo Moon, certo che chi vorrà bagnarsi nei suoni cristallini del loro disco sarà toccato da un sentimento di bellezza ben più prezioso e durevole della semplice fortuna.

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