Cardinals – Cardinals

Di Cork ho un ricordo abbastanza vago, che si colloca pressapoco fra il 2002 e l’anno seguente, non saprei dire con precisione. Ero stato all’epoca sorteggiato, assieme ad altri studenti, come rappresentante del mio istituto superiore (indirizzo classico) in uno di quei viaggi-scambio fra scuole di diversi paesi europei, finalizzati a gemellarne gli scolari. Del viaggio (il primo in aereo peraltro), degli istituti visitati, della città stessa, mi restano come dicevo poche e assai confuse memorie, eccezion fatta, ovviamente, per gli album acquistati in uno dei fornitissimi negozi del centro, che invece ricordo a menadito, anche perché destinati a lasciare solchi profondi nei miei padiglioni auricolari -nell’ordine: Is This It degli Strokes (che ascoltai ossessivamente per tutti i cinque giorni della permanenza), la raccolta Going For Gold degli Shed Seven, Thirteen Tales From Urban Bohemia dei Dandy Wharols e Bitches Brew di Miles Davis.

Ascoltando l’omonimo ep di debutto dei corkensi (si dirà così?) Cardinals, quei giorni dorati, così meravigliosamente “potenziali” d’inizio Millennio, sono inevitabilmente tornati alla mia mente e già solo per averli (re)suscitati sarei non poco grato ai sei Irlandesi (Elias Canetti scrisse da qualche parte che “Nei libri che ricordiamo c’è tutta la sostanza di quelli che abbiamo dimenticato” ma credo lo stesso possa valere anche per i dischi…).
Tuttavia, e al di là dell’uggioso amarcord ginnasiale, credo si debba ringraziare i Cardinals anche e soprattutto per l’ottima fattura delle canzoni raccolte in questa prima uscita discografica a loro nome.

Si tratta di sei composizioni invero abbastanza divergenti fra loro, probabilmente accomunate da un certo (peraltro piacevolissimo) umore “anni Novanta” che tende a permearne contorni e sfumature. L’impressione è che i Cardinals cerchino in effetti di trasgredire, con audacia più che apprezzabile, il dogma (post)punk oggi imperante in terra britannica, esplorando segni e soluzioni formali spesso eccentrici rispetto al nuovo canone indie-rock ormai codificato da tante band d’Oltremanica e d’Oltreoceano in questi ultimi dieci anni.

Nineteen è un bellissimo affondo velvettiano (trafitto da lance blues Spiritualized nel ritornello) che si lascia poi scivolare con grazia davvero non comune nella acque ondeggianti della magnifica ballata If I Could Make You Care, dominata da un crescendo degno della prima maniera radioheadiana (altezza The Bends/Ok Computer, per intenderci). E se Twist and Turn si dibatte fra Stone Roses, primissimi Blur e un certo trottolare baggy, Unreal (la più “potabile” del lotto, per così dire…) è brit-pop in quintessenza, con tanto di caracollante refrain, da qualche parte fra Urusei Yatsura (li ricordate?) e Auteurs prodotti da Albini:

If I woke up in the morning
I’m sure I wouldn’t feel a thing
Now I find my time is running
Both of my ears start to ring

Ma è forse Roseland la vera canzone-manifesto del sestetto: le parole del frontman Euan Manning si incastrano come tessere sconnesse in un wall of sound rabbiosamente disilluso (che a tratti ricorda certi Yo La Tengo, come osservato da qualcuno…), reso ancor più ripido dal contrappunto di una aerea fisarmonica che aggiunge pathos e spessore drammatico a versi come:

I was sick as a dog when I found her.
Still wrapped up in my pride.
Goodnight and God-guard you forever –
Write to me won’t you goodbye.
So softly I then kissed her pale lips.
Was the first time, like the last?
I don’t know why I treat you so kind –
When you’re always putting me last.

Se i Cardinals riusciranno a proseguire lungo questa via, avranno ben pochi inseguitori capaci di tenere il loro passo, c’è da scommetterci.

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