The Cure – Alone (a reflection)

“The fire is out, and spent the warmth thereof,
(This is the end of every song man sings!)
The golden wine is drunk, the dregs remain,
Bitter as wormwood and as salt as pain;
And health and hope have gone the way of love
Into the drear oblivion of lost things.
Ghosts go along with us until the end;
This was a mistress, this, perhaps, a friend.
With pale, indifferent eyes, we sit and wait
For the dropped curtain and the closing gate:
This is the end of all the songs man sings.

(Ernest Christopher Dowson – Dregs)

Chi li ha sempre seguiti lo sapeva già da qualche giorno, ma adesso è ufficiale: dopo sedici anni (forse potremmo dire “dopo ventiquattro anni”, a essere buoni, visto che i due lavori della band usciti negli anni 2000, dopo che Bloodflower aveva inaugurato il nuovo millennio, sarebbe meglio dimenticarli) The Cure -o i Cure, come abbiamo sempre detto in questa periferia dell’impero- tornano con un nuovo album: Songs Of A Lost World uscirà in tutto il mondo il prossimo 1° novembre (il giorno dei morti… sarà un caso?). Ora sappiamo che l’album conterrà otto lunghi brani (e già ci chiediamo se ci sarà spazio anche per la solita canzoncina che, negli anni ottanta, al primo ascolto ci faceva gridare allo scandalo per la sua banalità e per il suo essere “troppo commerciale” e che poi abbiamo finito per cantare -magari con le lacrime agli occhi- per qualche decennio) e che ne esiste una versione doppia con gli stessi brani (?) strumentali e una versione BLU RAY (una versione Blu Ray? Siamo ancora negli anni dieci?). Alcuni dei brani sono già stati eseguiti dal vivo durante il tour Shows of a Lost World, che lo scorso anno ha girato il mondo e coinvolto più di un milione di persone. Possiamo anche, finalmente, ascoltare (nella sua versione definitiva in studio) il primo brano dell’album (la cui playlist definitiva è, al momento, ancora segreta): si tratta di Alone, già suonato per aprire ogni concerto di quel tour.
Tutte queste notizie, probabilmente, le avrete già lette altrove, magari con maggior dovizia di particolari. E, quindi, perché riproporle qui?

Semplicemente perché, per il sottoscritto (e, sono certo, per altri milioni di persone nel mondo) i Cure non sono solo una delle tante band di cui sono innamorato, ma sono quella che -come ho già detto proprio qui– ha stravolto il mio modo di ascoltare la musica e, inevitabilmente, il mio modo di rapportarmi alla vita.
Sarebbero, molto presto, arrivati anche gli Smiths (che strana sensazione è non usare il The davanti al nome, ma è un suono che mi riporta a un passato più ingenuo, più semplice) ma Robert Smith, lo strano personaggio con i capelli cotonati, il rossetto sbafato, le scarpe da ginnastica alte e sempre slacciate e i suoi maglioncini neri sdruciti, con le maniche troppo lunghe, è sempre stato lì, almeno fino alla mia età adulta (stavo per scrivere completa maturità, ma qui si tenta di essere sinceri…) a ricordarmi dei miei quindici anni, della insensata disperazione dell’adolescenza, della brutale sincerità e della tenera ingenuità con cui si affrontava la vita a quell’età, del mio primo amore (e del secondo e del terzo…), delle nottate in spiaggia -sì il mio stabilimento balneare era differente- a cantare sulle note un po’ distorte di un juke-box insieme a tanti sconosciuti, tutti vestiti di nero e truccati in maniera inquietante (o buffa, a seconda dei punti di vista). E di quei concerti…
Robert Smith e i suoi Cure sono sempre stati lì, e non si può fare finta di niente, non si può tornare indietro. Una loro canzone non sarà mai una canzone qualsiasi.

Alone, così come Endsong (altro brano già suonato dal vivo) e qualsiasi altro inedito uscito dal tour dello scorso anno, non avevo voluto ascoltarla con attenzione. Aspettavo qualcosa. Forse solo che ne uscisse una versione definitiva, incisa e immodificabile, ma l’hype e l’indovinata strategia di marketing adottata dal buon Robert mi hanno comunque coinvolto e sono stato travolto da un’eccitazione che non provavo da molto tempo.
L’amico Francesco (Giordani), commentando questa attesa, mi ha scritto qualche giorno fa: “Io non vedo l’ora che esca, comunque, e, ti dirò, questa cosa di aspettare un disco mi sta restituendo un senso di futuro, per quanto a breve termine. Pare ridicolo e forse lo è“.
E, invece, questa sensazione, questa attesa e questo “senso di futuro”, sentivo che non erano affatto ridicoli, anche se, mentre ne parlavamo, ancora non riuscivo a capire esattamente il perché.

Poi, finalmente, ho ascoltato per intero Alone e tutto mi è stato chiaro.
Mi sono commosso, semplicemente. E, con commosso, intendo dire che mi sono spuntate le lacrime.
A mente fredda, potrò anche analizzare il brano e dire che si tratta di un ottimo connubio tra le sonorità post punk e il dream pop, che mi fa tornare in mente Charlotte Sometimes (ma con meno enfasi sulla melodia) e anche Plainsong, che è una “canzone dal fascino apocalittico che ti trasmette una sensazione di addio” (sempre parole di Francesco Giordani) e magari trovargli qualche difetto, nella apparente mancanza di novità del testo -ispirato comunque a un magnifico componimento del poeta decadente inglese Ernest Christopher Dowson- nell’arrangiamento, con quelle tastiere così “avanti”, nell’originalità, nella sua ricerca ossessiva dell’effetto “Disintegration“, ma quel che resta -e quel che veramente conta- è che mi sono commosso ascoltando una canzone. Un’altra volta.

Solo dopo l’ascolto di Alone così, ho cominciato a intuire perché l’eccitazione quasi infantile che provo può avere senso, perché, come Francesco, ho sentito anche io un “senso di futuro” nell’attesa dell’uscita di Songs Of A Lost World: è perché Alone mi riporta indietro a un momento in cui quell’eccitazione era ancora possibile e giusta e presente e non mediata, a un’epoca in cui si riusciva a guardare al futuro con qualche nota di speranza (o, semplicemente, si riusciva a guardare al futuro).
E ottiene questo risultato non passando attraverso il mio cervello, cercando di ingannarmi e sfruttando l’effetto nostalgia, irretendomi nei ricordi e tentando di farmi credere ancora in un passato idealizzato e inesistente, ma, senza mediazioni, connettendosi direttamente al mio cuore e alla mia anima. Se dovessi spiegare come ciò avvenga, credo che non ci riuscirei, ma mi sembra ininfluente.
Si tratta, come sempre, di una questione di sincerità.

Pare che -me lo riferisce ancora Francesco- a chi gli chiedeva ragione del perché, a sessant’anni passati, continuasse a conciarsi in quel modo, Robert abbia risposto: “Ci sono migliaia di persone che si conciano così per colpa mia. Non posso abbandonarli“.
Si tratta, come sempre, di una questione di sincerità.

“I’m Robert, from The Cure…”

2 pensieri su “The Cure – Alone (a reflection)

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