Francesco Amoroso per TRISTE©
Come fare? Prima o poi i Cure li avrei dovuti affrontare, eppure scegliere uno solo dei loro album mi pareva davvero un’impresa ardua, se non impossibile. Avrei potuto parlare di Three Imaginary Boys, il loro esordio: tre ragazzini neanche maggiorenni che, in pieno punk, sfornavano canzoni pop inimmaginabili, intrise di teenage angst, fatte di pochi accordi, eppure efficacissime, come Boys Don’t Cry, 10:15 Saturaday Night, Fire In Cairo.
Oppure avrei potuto raccontare del mio primo, travolgente, incontro con la trilogia “dark”: Seventeen Seconds, Faith, Pornography (me li regalò, insieme, mia nonna una notte di Natale di quasi trent’anni fa) e, anche in quel caso, sarebbe stato arduo scegliere tra tre lavori che, ognuno a modo proprio, hanno definito un suono e un’epoca grazie a brani unici e irripetibili quali A Forest, M, Play For Today, All Cats Are Grey, One Hundred Years, The Hanging Garden.
Avrei anche potuto optare per l’album che, a quindici anni, ha cambiato il mio modo di fruire la musica e, in qualche modo, anche quello di rapportarmi all’arte in generale (ancora ricordo quando, quasi vergognandomi di me stesso, tornai a casa con in mano un album che, sin dalla copertina, era stato chiaramente inciso da “drogati”): The Head On The Door, il primo lavoro smaccatamente pop della band di Robert Smith e soci, che, anche grazie ai videoclip di In Between Days e Close To Me, riuscì a fare breccia anche presso un pubblico più ampio e meno avvezzo a certe sonorità e a un certo look.
Avrei, partendo quasi dalla fine, anche potuto parlare di Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me, nel quale c’era Just Like Heaven, una delle prime canzoni che mi capitò di dedicare a una ragazza (o, meglio: una delle prime che dedicai a una ragazza con qualche risultato concreto), o di Disintegration, disco di rara intensità e bellezza, durante il cui tour assistetti a un concerto ad oggi forse ineguagliato.
Alla fine una scelta andava fatta, perché non potevo esimermi dal parlare di una delle band che, mettendo da parte qualsiasi forma di snobismo, hanno segnato di più la mia adolescenza e, di conseguenza, il mio modo di essere.
Ho deciso di non scegliere.
All’inizio dell’estate del 1986, avendo conosciuto i Cure (ometto il “The” così come facevano tutti i ragazzini all’epoca) con il claustrofobico video di Close To Me e con The Head On The Door, chiesi a un amico più esperto (e anziano) di consigliarmi un album della band da recuperare. Lui non mi rispose nulla. Mi passò solo una bella cassettina dicendomi che la loro raccolta di singoli, Standing On A Beach, era tutto quello che mi serviva, per cominciare. Inutile dire che la mia estate fu molto, molto “oscura”.
Non fu neanche questione di innamoramento a primo ascolto. Fu una specie di sortilegio: dalle prime note arabeggianti di Killing An Arab, brano ispirato a Lo Straniero di Camus, passando per il basso di 10:15 Saturday Night, attraverso l’inno generazionale Boys Don’t Cry (che, vi assicuro, ascoltato a 15/16 anni può essere commovente fino alle lacrime, nella sua ingenuità), fino all’incalzante batteria di The Hanging Garden, allo spiazzante pop elettronico di Let’s Go To Bed, alle note solo apparentemente sbarazzine di In Between Days o Close To Me, quella cassetta (che presto si sarebbe trasformata in un vinile, per poi diventare anche un cd, stranamente titolato Staring At The Sea, prendendo a prestito il secondo verso del brano di apertura invece del primo) scompaginò il mio mondo, mise a soqquadro le mie salde convinzioni di ragazzino per bene, mi fece capire quanto fosse importante non farsi ingannare dalle apparenze e essere aperto verso le differenze.
Ma, più di ogni altra cosa, mi introdusse in un mondo musicale desueto, fatto di canzoni oblique e stranianti che non dimenticavano la melodia, nel quale cuore e amore non facevano quasi mai rima (e, quando accadeva, era solo per riderci sopra), nel quale storie ordinarie diventavano straordinarie e universali e un giullare con il rossetto sbafato e i capelli cotonati poteva dire tutto quello che tu avresti sempre voluto, senza avere mai il coraggio o le parole giuste per farlo.
[Robert Smith, ora, a 56 anni, continua a mettersi il rossetto sbafato e a cotonarsi i capelli: a volte penso che sia un po’ patetico. Poi ricordo quell’estate (e i tanti anni a seguire) e capisco perché gli vorrò comunque sempre un gran bene.]
Pingback: High Vis – Blending ** Thus Love – Memorial ** Woru Roze – Soil | Indie Sunset in Rome