
Francesco Giordani per TRISTE©
Luigi Pavone è nato nel 1985, come me.
Il 1985 è un anno che, almeno nella memoria collettiva italiana, si lega principalmente ad una delle più massicce nevicate della storia meteorologica nazionale. Ma il 1985 fu anche l’anno del Live Aid e di We Are The World, di romanzi memorabili come Trilogia di New York, Meno di Zero, Meridiano di sangue e Atlante occidentale e di album non meno importanti come Steve McQueen, Songs from the Big Chair, Meat Is Murder e Psychocandy. Nel 1985, accendendo la radio, avreste potuto sentire Take On Me e poi magari Close to Me, mentre nel cinema più vicino vi avrebbero molto probabilmente accolto pellicole straordinarie come Ritorno al futuro, Brazil, The Goonies e Breakfast Club.
Insomma il 1985 sembrerebbe esser stato, a posteriori, un anno non così brutto da vivere. O in cui nascere.
Tutte queste cose mi assalgono disordinatamente il cervello proprio mentre leggo e rileggo incredulo un messaggio di Alex Pester che, da una pagina bandcamp a nome Rosenberg, informa, in modo tanto laconico quanto agghiacciante: “I’m about ready to give up on this dream and start living my life. It’s been really painful this last year and I don’t want to put myself through this anymore. This will be the last thing I share with you all for some time”.
Parole che non riesco, con un brivido, a non mettere in relazione con quanto trovo scritto a pagina 63 del libro di Luigi Pavone: “Intanto la mia depressione da latente, si fa galoppante. Sulla SS17 di ritorno da Isernia, con in testa i pensieri più neri del mondo, tamburello le dita sull’autoradio su Bling (Confession of a King) dei Killers e decido di intraprendere la sola e unica strada, la mia”.
Si tratta di una strada che probabilmente, come quella cantata dai Talking Heads o come tante che fin troppo spesso capita di imboccare, non porta da nessuna parte; e che pure, nel contorto girovagare senza meta a cui dolorosamente costringe, riesce talvolta, con un po’ di fortuna, a condurre nel luogo più inaccessibile, al centro esatto di sé stessi. Come accade al protagonista del libro di Pavone (ci torneremo) e come, mi auguro, possa accadere anche ad Alex Pester.
Sarà che in quest’anno giubilare, benedetto dal ritorno degli Oasis (un mezzo miracolo che si spera non si rovesci in truffa…), compio quarant’anni. Sarà che mi sposo. Sarà che lentamente invecchio e con la coda dell’occhio vedo ogni giorno piccoli pezzi del mio paesaggio sgretolarsi e svanire. Sarà che invecchiare, fra le tante cose, mi sta insegnando ad accettare sportivamente l’idea che la giovinezza non mi riguardi più, se non come ricordo o come speranza. Un po’ come la luna di Leopardi. No, non quella di Alla luna, ma quella che ho scoperto grazie al bel film L’Albero:
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
(Prosegue qui)
Sarà un po’ tutto questo, dicevo, ma già da qualche tempo il mio timore più grande era che della mia generazione non sarebbero poi rimaste grosse tracce, a parte forse qualche goal di Cristiano Ronaldo. Invece mi sbagliavo e di questo dovrò essere per sempre grato a Luigi Pavone che, con il suo Babies -ovviamente il riferimento è ai Pulp perché nel gioco delle band siamo i Pulp, sempre- ha donato a me e ai miei non meno sgangherati coetanei quello che non posso che considerare un testamento poetico definitivo.
Babies non è esattamente un romanzo. E nemmeno un memoir o un esercizio di autofiction, come oggi tanto si usa. Potrei definirlo piuttosto un autoritratto inventato. Ma preferisco considerarlo una specie di stranissimo canto, di poema ineffabilmente picaresco, scritto in uno stile spezzato, proprio per questo tagliente, frammentario, sonoro e sempre vivissimo. Scritto soprattutto di corsa. A bruciapelo. Con il fiatone e la vena che pulsa sul collo. Se stessi ribattendo la recensione di un disco azzarderei: un’opera dominata da un suono garage, sporco e psichedelicamente riverberato, pieno di echi. Che sbatte tra tempi verbali dissonanti, fra prima e terza persona, fra l’Io e l’Altro ovvero tra Luigi e Peacock, in una partita che resta aperta, anzi sospesa, sino all’ultimo rigo.
Chi ci parla in Babies ha imparato dal tennis l’arte di rimbalzare pericolosamente a fil di rete, disegnando nell’aria le traiettorie effimere di una pallina da tennis che schizza da una metà all’altra del campo e del controcampo, confondendo confessione e visione, diario e favola. Valentina Farinaccio, che il libro lo ha scoperto e pubblicato, dice a tal proposito una cosa che mi pare perfetta: “Come sotto al palco di un concerto punk bisogna tenersi alla transenna, per non cadere”. Ed è così che si legge Babies: tenendosi forte, andando di qua e di là. Ma sempre con gli occhi sgranati, iniettati di stupore, mentre si inseguono gli amori, le opinioni e le acrobatiche sbandate di Peacock, da Campobasso a Siena e ritorno, nel cuore dei primi anni Zero, tra folgorazioni rock, duelli tennistici, sbronze disumane, innamoramenti di ogni genere: erotici, calcistici, letterari.
Il tutto in parole “disegnate” – quasi cantate – sulla pagina. Essenziali. Dolorosamente testamentarie. Pressoché indubitabili. Ma anche, se non soprattutto, parole grezze, feroci, arruffate, come poteva esserlo un’esibizione dei Drums (citati non a caso nel libro) nel 2010: il massimo della visceralità che si ribalta del tutto naturalmente nel massimo della stilizzazione. Un miracolo raro che, di tanto in tanto, nel rock sincero può ancora innescarsi.
Questo deve fare il rock e questo fa dunque Babies: provare a imprigionare dentro di sé la giovinezza mentre se ne scappa, prima che essa ci abbandoni spietatamente al tempo che rimane. Questo deve riuscire a fare il rock e questo riesce a fare Babies: afferrare la vita sconnessa di ragazzi che “si montano e si smontano e restano sempre in piedi” e spremerne infinita leggenda ad uso e consumo di chi verrà dopo di loro.
Fu difficile usare le ali? Ti spararono in molti? Gli sparasti a tua volta?
E adesso volo anch’io!!!
Ti amo. x sempre?
(no, x adesso)
dopotutto sei Amore Adolescenziale!!!
Luigi Pavone
Babies
SEM, 2025
Qui una playlist da ascoltare durante la lettura del libro:
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