Prefab Sprout – Steve McQueen

prefabsprout_stevemcqueenFrancesco Amoroso per TRISTE©

Credo di avervi già tediato fin troppo con i racconti strappalacrime su come fosse difficile, nella provincia degli anni ottanta, ascoltare e scoprire musica pop nuova e di valore.

L’unica possibilità per me allora era costituita da Rai Stereonotte, trasmissione notturna della Rai che, passata la mezzanotte, si affrancava dalle playlist imposte (a quanto ho poi capito, dopo la mezzanotte e fino alle 6,30, non si pagava più la SIAE, con il conseguente mancato interesse da parte delle etichette discografiche major di monopolizzare l’etere) trasmettendo solo musica di qualità con conduttori preparatissimi e appassionati.

Fu però anche grazie a una rivista mainstream e patinata che riuscii a scovare tante band che mi avrebbero poi fatto compagnia per lungo tempo a venire. Si chiamava “Rockstar” e ci scrivevano alcuni maestri della critica musicale italiana (anche conduttori di Rai Stereonotte, non per caso).

Avevo cominciato ad acquistarla regolarmente intorno al 1984, attirato da una copertina dedicata alla Principessa Sade (che mi affascinava non solo per la voce calda e suadente).

Nell’anno di grazia (si fa per dire) 1985, erano usciti sia Promise di Sade, appunto, che The Dream Of The Blue Turtles di Sting, fresco transfuga dai Police. E, mentre leggevo su “Rockstar” articoli e recensioni dedicati a quegli album, mi imbattei (sarà che a quell’età la curiosità, per fortuna, è ancora forte) nella copertina di un disco che ritraeva quattro giovanotti vestiti come bulli di campagna (giubbotti di pelle, jeans strappati, tagli di capelli improbabili) intorno a una vecchia moto Triumph.

Ancora mi chiedo cosa mi attirò di quella copertina e cosa mi portò a leggere la relativa recensione. Sta di fatto che, appena conclusa la lettura, mi lanciai sul mi fido destriero (un Sì grigio con un adesivo di Sting) e corsi verso il fornitore di vinile più vicino per accaparrarmi questo Steve McQueen di tali Prefab Sprout, dei quali non avevo mai sentito neanche una nota. (Una volta le cose andavano così e, sarà la nostalgia della gioventù, tutto appariva più affascinante). Tornato a casa e messa la puntina sui solchi del disco, bastò arrivare al terzo brano del lato A perché scoppiasse un amore immediato (e imperituro).

I Prefab Sprout erano (sono?) una band irlandese, costituitasi attorno al geniale cantante e compositore Paddy McAloon e avevano già all’attivo l’ottimo Swoon (che, naturalmente, recuperai subito dopo). Steve McQueen era il loro tentativo di sfondare nel mondo del pop “indipendente” (incidevano per la Kitchenware di Newcastle, ma erano distribuiti dalla Columbia) per il quale si erano affidati al pioniere del synth pop Thomas Dolby che aveva arrotondato i loro suoni, rendendoli più accattivanti e fruibili. Il risultato fu straordinario, soprattutto grazie alle incredibili capacità di scrittura di McAloon (negli anni poi riconosciutegli universalmente).

prefabsproutFeci subito mio l’entusiasmo dell’autore della recensione (il grande Giampiero Vigorito) perché Steve McQueen era tutto ciò che un ragazzino, pur non troppo avvezzo a complicate alchimie musicali, poteva volere: melodie celestiali, canzoni toccanti, un romanticismo diffuso ma lontano da ogni melensaggine. “Il paradiso” lo definiva il recensore. “Il paradiso” pensavo anche io.

Il cantato morbido e carezzevole di Paddy, la sua chitarra che non suona mai una nota di troppo, le ritmiche discrete ma costanti, i vocalizzi angelici di Wendy Smith: ogni ingrediente è al suo posto nelle undici preziose canzoni che compongono un album nel quale i sentimenti sono sempre presenti ma mai urlati, nel quale è facile perdersi senza mai sentire il desiderio o il bisogno di ritrovarsi.

Ancora mi commuovo (e non lo dico per il gusto dell’iperbole) ascoltando brani quali Appetite, When Love Breaks Down o Goodbye Lucille #1. E mi commuovo non nel ricordo di quello che è stato, dei sogni e dei tremori di un ragazzino adolescente, di un’epoca, musicale e non, che non tornerà più, ma lo faccio come ci si commuove di fronte alla bellezza che lascia attoniti, a corto di parole per descriverla, come (credo) ci si commuoverebbe quando si è finalmente investiti dalla grazia.

E ogni volta ringrazio Paddy McAloon (e, con lui, il recensore) per avermi fatto comprendere, in tenera età, come la bellezza, pura, senza fronzoli e sovrastrutture, sia davvero un’arma potente e uno scudo (quasi) invincibile.

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