Francesco Giordani per TRISTE©
Gennaio, si sa, è quel momento dell’anno in cui l’ascoltatore compulsivo si vota al diligente recupero di quanto nell’anno precedente gli è per i casi della vita sfuggito ma che per fortuna resta annotato nella sua proverbiale agendina.
Chi vi scrive non fa eccezione e, tra i tantissimi (troppi!) dischi che in questi giorni ho recuperato, raccomando senz’altro Merrie Land dei The Good The Bad and The Queen.
Il secondo lavoro dei The Good The Bad and The Queen si è fatto attendere ben undici anni. Ad aspettarlo non eravamo rimasti in molti, a giudicare almeno dalla tiepida e soprattutto furtiva accoglienza che gli è stata riservata.
Se infatti nel 2007 la superband immaginata da Damon Albarn con l’aiuto di Tony Allen (storico batterista degli Afrika 70), Paul Simonon (Clash) e Simon Tong (The Verve e poi Blur, Erland and The Carnival, Gorillaz e miriadi di altre collaborazioni) aveva, con il suo omonimo esordio, saputo calamitare entusiasmi trasversali e assolutamente non da poco, oggi il nuovo Merrie Land corre il concreto pericolo di passare alle cronache come un album out of time, rubando celebri parole allo stesso Albarn.
Il che sarebbe un peccato. Perché Merrie Land è un disco perfettamente attuale e, quel che più conta, semplicemente splendido, tutto da scoprire. Presentato alla stampa come un lavoro d’impianto “folk”, questo secondo atto a firma Albarn e soci frulla in realtà sessant’anni di “continuity” musicale albionica in un affresco dalle geometrie sempre cangianti.
Le filastrocche stravolte e burattinesche di Barrett (la splendida Gun to The Head), gli acidi pic-nic dei Beatles in gita nelle sconnesse brughiere della psiche (Drifters and Trawlers), la fine enigmistica degli XTC (The Truce of Twilight), l’angoscia domenicale, da luna park desertificato, degli Specials di Ghost Town (omaggiati in The Great Fire): l’anglomania latente che dorme dentro ognuno di noi troverà di che deliziare le sue papille in questo Merrie Land.
Il disco, a mezza via fra il Requiem e la sigletta, è tutto un rimembrare e fantasticare, al suono di struggenti quanto macabri organetti, un’Inghilterra che da vivido ricordo sbadisce inesorabilmente in allucinazione tragica. Come se unico rifugio dagli incubi del presente (quel presente che lo stesso Albarn, nell’ultimo disco dei Gorillaz, chiama The Now Now) fosse ormai il sogno di un passato costantemente re-immaginato con l’aiuto della poesia (ascoltate la bellissima Lady Boston e The Poison Tree).
Il tutto plasmato dalle ispirate mani di un produttore assolutamente non casuale come Tony Visconti che, rispetto a Danger Mouse -dietro il banco per il precedente lavoro- asciuga la coltre di vapori onirici a favore di un disegno più nitido e tagliente, sempre guidato dalla voce di Albarn in libero dialogo con le linee di basso di Simonon e le imprevedibili invenzioni batteristiche di Allen.