Deserta – Black Aura My Sun

Deserta - Black Aura My Sun

Marco Bordino per TRISTE©

Il primo disco del progetto Deserta, uscito all’inizio del 2020 per Rough Trade, è stato composto, registrato e prodotto da un unico artista, Matthew Doty.
Il “ragazzo” californiano ha un discreto passato alle spalle: fondatore dei Saxon Shore, band post-rock degli anni 2000, e collaboratore di un certo padregiovanninebbioso.
Insomma il curriculm c’è.

Oggi si presenta con un album dalla chiara identità di genere: uno shoegaze synth pop di purissima qualità. Gli ingredienti ci sono tutti: voci sussurrate, chitarre con riverberi da cattedrale e decay a manetta, textures lunari a fare da tappeto.
Le atmosfere sono notturne e i tempi dilatati. La proposta non è propriamente originale, ma questo è l’unico difetto di un disco molto ispirato.

Ogni cosa è al proprio posto e le sette tracce che compongono il disco scivolano via che è un piacere, soprattutto per chi ama questo sound, che a me ha sempre evocato ambienti aperti e solitari (una desolata statale americana, la Groenlandia o la bassa Maremma per es.).

L’utilizzo diffuso di dreamy synth, bass synth e ritmiche artificiali allontana il suono dallo shoegaze delle origini e lo avvicina alle evoluzioni digitali di questo genere sempre verde, come per esempio facevano i primissimi M83.

Anche Doty è solo, come appare sulla copertina del disco, come si può essere soli con intorno un deserto.
Fa un gran freddo, Doty, eppure ci inoltriamo, attirati da un cuore di tenebra procediamo verso l’ignoto.
Insieme e soli ci facciamo questo viaggio in sospensione tra le tracce che sembrano un’unica lunga soundtrack che offre sensazioni simili e in continuità tra loro.

Le iniziali “Save me” e “Paradiso” avanzano, guadagnandosi ampi spazi in cui risuonano molto gli Slowdive di Just for a day,  ancor più riverberati e impastati.

“Hide” inizia pulita come un pezzo dei Beach House poco prima che irrompano chitarre degne di uno Shields rigenerato. La voce calda e sussurrata spennella descrivendo ambienti dentro e fuori, assorbendo immagini e riflettendone altre.

“Be So Blue” presenta un intreccio molto riuscito tra synth, chitarre e una linea vocale più in evidenza, forse l’unica che riuscirei a cantare in motorino.
Il disco si chiude cupamente con “Black Aura”, splendida.
Il ritmo rallenta e ci si prepara a terminare questo breve viaggio con Doty, quaranta minuti molto intensi in cui starsene soli e in silenzio ad ascoltarsi le viscere.

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