Agnese Sbaffi per TRISTE©
Era inizio giugno: Alex Morelli, da New York a Cosenza, mi consigliava il nuovo album dei Palehound, la Redazione approvava e il disco era impertinente e sfrontato come sognavo l’estate.
La recensione iniziava così:
“And if you quit smoking
Will you just start drinking?”
(Company – Palehound)
Cosa abita lo spazio intimo che si apre tra lo smettere di fumare e il cominciare a bere?
Cosa resiste in quel brivido temporale che unisce il non ancora con il non più e nel quale si intravede, come in una dissolvenza incrociata, un po’ di possibile?
Ho letto che è l’articolazione dei vuoti a determinare la struttura dell’organismo (cfr. un
organismo architettonico).
Per similitudine si potrebbe dire che è soprattutto quello che di noi stessi non sappiamo
che ci definisce, ed è negli altri che cerchiamo l’emozione rimasta in noi incomprensibile*,
confidando che quella zona di non-conoscenza possa chiarirsi nello specchio dell’altro.
Così, esitando sulla soglia di quel vuoto preindividuale, ascolto le prime note di Black
Friday, terzo album del trio canadese guidato da Ellen Kempner alla chitarra e alle parole.
[…]
(*G. Agamben – Profanazioni, Genius, pp. 7-18.) -“
Ed è esitando infatti, con la calma apparente di chi dissimula il dubbio con la pacatezza, che da quella soglia non mi sono mai mossa.
Fino a quando, dopo alcuni altri inizi di recensioni (Two Hands dei Big Thief è bellissimo), dopo innumerevoli tentativi di distrarsi in modo più o meno sano, dopo aver raggiunto insensati picchi di esuberanza e abbrutimento, è uscito il 24 gennaio per Synderlin “Please Daddy”, sesto album in studio di Sarah Mary Chadwick.
Nelle melodie gentili, nell’enfatico crescendo dei fiati e della voce profonda che si accompagna al pianoforte trovano sfogo i tumulti esistenziali dell’autrice neozelandese.
Lei di certo non esita a varcare la soglia del palcoscenico, anzi definisce “divertente e molto triste” la posizione di potere che si occupa con un microfono in mano.
E sono divertenti e molto tristi anche le dieci tracce che compongono il suo album. Si alternano brani più vivaci, dall’atmosfera alt-country ed emotivamente più leggera (Let’s Fight) a tenere e graffianti elegie costruite intorno al ritmo languido del pianoforte e all’intensità commovente della sua voce (When will death come, Make Hey, Nothing Sticks, If I squint).
“Nothing’s bringing colour to my cheeks mama” canta tristemente nel brano che da il titolo all’album e che racconta l’angoscia legata alla perdita del padre.
Quasi un pianto, Nothing’s Stirs Me, mentre la tromba si affaccia trionfante sulla scena e le scintille di un flauto punteggiano la voce rotta dal dolore.
L’apparente contrasto tra i testi strazianti e l’accompagnamento maestoso e brillante suggerisce un conforto che non può prescindere dal riconoscimento dell’assenza irrevocabile che abita il cuore della vita, perché è proprio in quel momento che le gote tornano a colorarsi, mama.
È, infatti, il colore che prende il proscenio nell’ariosa ballata finale, All Lies, scioglie ogni dubbio: “And I’ve let go all my pain, through sheer will/ power I made it leave” nella forza di volontà che la sofferenza personale dell’autrice trova allo stesso tempo
riconoscimento e accettazione.
Che sia attraverso le parole, la musica o le perturbanti illustrazioni che la Chadwick crea, riconoscere l’articolazione dei vuoti che determina la propria struttura, quindi dare forma alla mancanza inaggirabile che ci definisce, mi sembra l’esortazione più cara e luminosa che si possa ricevere.