Suzanne’Silver – Untitled aka L’abominevole aka The Pink Album

suzanne's silver

Giulio Tomasi per TRISTE©

Ma come fanno i recensori a parlare dei dischi degli amici e a rimanere però obbiettivi?

Nel mio caso, prima ancora del rapporto d’amicizia, il problema della lucidità di giudizio rimanda a quella naturale empatia per l’aver fatto fin qui musica, partendo in anni che non hanno il 2 davanti, in un contesto cittadino dove tutto e quasi tutti ti avrebbero portato ad abbandonare la nave non ora ma eoni fa.

Mi sembrava doveroso prima di farvi immergere in questo “Untitled aka L’abominevole aka The Pink Album” l’avviso ai naviganti: io e i Suzanne’Silver condividiamo l’acqua, pardon, la terra d’origine.

L’inizio con “Fiddle Satan Tango Electro” ha Il passo tipico della band, ancorato a certe cadenze post-core e potrebbe far pensare che si sia dato il la a un lavoro eccelso ma didascalico rispetto un certo modus operandi, tuttavia fortunatamente non è affatto così, poiché “L’abominenevole” è senza dubbio l’album che utilizza al meglio il ventaglio di soluzioni stilistiche pescate ovunque dalla band nel corso dei 20 anni di attività.

In un mare magnum di suoni l’ultimo capitolo della formazione aretusea è ricco dunque di tesori.
Dalla ninnananna psych surf di “Costarica (One to four)” alle invocazioni ultraterrene di “Bubbles Rainbows Poseidon”, sorta di joint venture tra il dio dei diamanti Barrett e la mitologia greca, passando per gli assalti rumoristici 90’s di “Vultures Waiting” i nostri mantengono la bussola sulle onde di una contaminazione che mai come questa volta ha origini dalla pelle scura.

Pensiamo a “Like” dove Childish Gambino viene sottoposto a un trattamento al fine di perdere una certa patina radiofonica o a “5.99 Whiskey To Find The Word”, un blues che si stempera in un funky da porno-groove, per non tacere di “Spasticus (Cock Beard)”, l’emblema di come il versante black dei Suzanne si sia andato ad inspessire sempre di più abbracciando anche fiammate soul tout court.

Cosi quando si arriva al dolce de profundis in ralenti di “Morse”, la traccia conclusiva, si avverte una certa sensazione di sconforto.  Siamo infatti al cospetto dell’ultimo atto di una carriera, sì perché, per citare qualcuno, “le band si sciolgono”.

E allora se fine doveva essere non poteva esserci miglior addio di questo disco che trasuda di tutto: i migliaia di km in tour, gli spazi angusti in cui i ragazzi, ormai uomini, hanno suonato negli anni, la disillusione per la miopia di un certo “sistema indie” incapace di guardare oltre il suo sensazionalista naso e soprattutto quell’attitudine scevra da ogni compromesso.

Eh sì, come puoi restare imparziale e non schierarti al cospetto di chi porta avanti certe battaglie navigando sempre in mari in tempesta?

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