Francesco Giordani per TRISTE©
Diciamocelo con tutta franchezza. In tempi come questi, sono spesso belle, anzi bellissime, anche le cose che non ci sorprendono. Proprio perché non ci sorprendono, aggiungo subito, perché non cambiano, restano come le ricordavamo, esattamente nel posto in cui le avevamo lasciate.
E se mi è sinceramente difficile raccontarvi la gioia tutta personale provata nel ritrovarmi in un cinema a guardare la solita dolceamara, prevedibile, del tutto pleonastica e dunque anche indispensabile commedia di Woody Allen, più facile mi è condividere la felicità di sapere i Coral, dopo venti anni esatti dal singolo d’esordio, ancora vivi, ancora fecondi e, cosa che più conta, ancora capaci di scrivere una delle opere più belle e pittoresche della loro intera discografia.
Coral Island, decimo lavoro in studio della band liverpooliana, è addirittura un album doppio, ventiquattro brani in scaletta per poco meno di un’ora di musica e storie che scorrono tuttavia velocissime, senza mai ingolfarsi nella fanghiglia torbida della ridondanza fine a sé stessa.
Ispirata esplicitamente ai pioneristici concept album d’epoca beat (Odessey and Oracle degli Zombies, S.F. Sorrow dei Pretty Things, Arthur dei Kinks, Ogdens’ Nut Gone Flake degli Small Faces), l’Isola dei Coral è in realtà un’Arcadia di memorie leggendarie, un piccolo mirabolante teatro in cui fantasia e capriccio manieristico si tengono avvinti in un ballo degli equivoci a tratti dolcissimo.
Centro e motore di tale ballo è l’epopea di un’immaginaria città di mare britannica (e rammentate che Liverpool è e non è sul mare), che la sapiente magia psichedelica degli Inglesi tramuta in un mosaico di tessere sonore finemente istoriate, una galleria di ritratti e miniature, in bilico tra il diorama incantato e il carillon di spettri, a proposito del quale il tastierista Nick Power (autore anche di un libro di novelle allegato al disco) ha dichiarato all’NME, “When you’re a kid, seaside towns feel magical then you see them later and think: these towns are fucked-up! The first half of the album sees it through the eyes of innocence and the second is through the eyes of experience”.
Originariamente l’album era infatti concepito come un dittico, suddiviso in due pannelli distinti: Welcome to Coral Island (imperniato sui mesi estivi) e The Ghost of Coral Island (scandito dal tema invernale).
Ad unire le due sponde è idealmente la voce virgiliana del nonno ottuagenario del cantante James Skelly, che a mo’ di bardo contrappunta le canzoni con la poesia trasecolata delle sue narrazioni orali.
Coral Island sta ai Coral come il glorioso The River a Bruce Springsteen: un fiume scrosciante di visioni sul cui greto la band ci invita a sostare e a sognare, senza paura di quel che accadrà.
Lover Undiscovered, Change Your Mind, Vacancy, The Game She Plays, la bellissima Golden Age, dipingono un compendio che è al tempo stesso anche allegoria dell’arte illusionistica dei Coral, alchimisti capaci di volgere l’elegia degli anni Sessanta nell’oro cantabile di un meta-genere pressoché infinito.
La città-canzone scoperta e riportata alla luce dai Coral, come già avveniva per la macchina congegnata da Morel, rotea così, instancabilmente, nell’attimo perfetto della sua eternità.
In parte ricordo, in parte fantasia, essa ci consola e ci riscatta con la forza di quello che, se nella realtà non esiste più (o mai è esistito davvero), almeno nell’immaginazione può ancora durare per sempre.