Alberta Aureli per TRISTE©
Fine estate, un RX-Torace, un mese di caldo torrido, una casa vuota e il paesaggio dopo la battaglia di Vasco Brondi
Da un po’ di tempo mi occupo di sparizioni. Non è un lavoro, è più una passione. Non faccio il prestigiatore o simili, diciamo che penso spesso a cosa c’era e adesso non c’è più. – Sei nostalgica – diranno, ma non è una nostalgia, è quasi una ricerca scientifica, e infatti ne parlo spesso con un amico che studia il caos – lui per davvero e per lavoro – . L’amico prova ad aiutarmi con cose affascinanti sulla materia e l’antimateria, e con cose semplici, ma difficilissime da accettare, come che esistiamo solo perché gli altri continuano a guardarci e a vederci, e che se smettessero niente potrebbe più provare che esistiamo ancora.
Mi racconta degli stormi in volo, dei viaggi lontanissimi, e di quante volte deve accadere la stessa cosa nello stesso modo, prima di poter dire che davvero accade. Che dalla frequenza dipenda l’affermazione mi sembra tanto convincente che poi, quando continuo a ragionarci da sola, credo possa diventare la spiegazione di tutto e tutto mi sembra girare attorno a quanto, perché è quanto a determinare l’intensità e forse anche l’esistenza/inesistenza di ogni cosa. E lo so che conviene fermarsi al generale, ma io non ce la faccio e per una specie di ipocondria filosofica finisco a preoccuparmi di me, di quanto esisto io, se esisto abbastanza o rischio di sparire. E per lo stesso timore penso a quanto esistono quelli attorno a me, quelli a cui voglio bene, a quanto riesco a volergliene, e a quanto bene mi vogliono, se è un bene sufficiente per continuare a esistere insieme, oppure no. Penso pure sempre al contrario, a tenere bassi i conflitti, per fare in modo che l’intensità della sofferenza non diventi più forte del piacere. Penso a quante possibilità ci vengono date dagli altri, a quante volte insieme avremo. Lo dice meglio di tutti Paul Bowles che in The Sheltering Sky, scrive: “Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti – eppure tutto sembra senza limite –”, e lo dice con la poesia di un mantra Vasco Brondi nel pezzo che apre il suo disco uscito a maggio, Paesaggio dopo la Battaglia, quando canta che “abbiamo ventiseimila giorni”, e che “siamo qui per rivelarci, non per nasconderci”. Il pezzo, appunto, ha un titolo-numero, palesemente quanto, per questo, e perché mi sembra dica di esserci, mi piace da subito. 26000 giorni è anche il primo pezzo che ho ascoltato dal vivo al suo concerto di metà agosto. Ma andiamo per gradi, perché agosto è alla fine e l’estate inizia a giugno.
L’estate inizia a giugno quando accompagno uno sconosciuto a prenotare l’RX-torace. Non è proprio uno sconosciuto, ma non è neanche un amico. È un conoscente. Stiamo pranzando insieme, si dice molto preoccupato, non lavora da un po’, deve capire dove vivere, ma soprattutto ha un mal di schiena lancinante, da giorni. Quando si siede, trova la posizione giusta e fa attenzione a non spostare più il busto di un centimetro. Così pranziamo, e lui muove solo il collo. Penso che debba soffrire parecchio. Dice che è perché una donna l’ha lasciato a dicembre, poco prima di Natale, e da allora è come se camminasse con un coltello piantato tra le costole. – Dobbiamo tirare via la lama -, gli ha detto l’osteopata, e lui è d’accordo. Ho aspettato molto per incontrarlo, ci siamo conosciuti a una festa, ma era ottobre, poi in tutti mesi invernali, come capita, abbiamo continuato a parlare al telefono e a scriverci. Il conoscente ha vissuto dieci anni a Roma poi è scappato via, ma sa di una dottoressa in zona che potrebbe visitarlo. E infatti lo riceve, è una donna simpatica, e alla fine gli prescrive un bel po’ di farmaci. La dottoressa mi guarda negli occhi mentre spiega che serviranno tutti a contenere il dolore e che l’RX-torace va fatto subito – anche oggi pomeriggio se riuscite, perché il problema potrebbe essere alle vie respiratorie e non si sa mai -. Il conoscente è un po’ spaventato, anche se mentre cammina, diretto alla ASL, sembra più agile. Da via Ricciardi attraversiamo il parco verde compresso tra i palazzi alti fino a largo Preneste. Alla ASL però non è possibile prenotare, occorrerebbero giorni, forse settimane, e il conoscente ha bisogno di vedere subito cosa succede alla sua schiena. Via Prenestina nel traffico delle cinque di pomeriggio, camminiamo per più di un’ora sotto il sole caldo che dilata l’asfalto, quattro corsie e la doppia linea dei tram traballanti sulle traversine, il conoscente dice che Roma è molto peggiorata, più povera rispetto a quando ci viveva lui. Quando arriviamo al centro analisi, la segretaria incastonata in una scatola di plexiglas, gli dà appuntamento per la mattina seguente e il conoscente sembra soddisfatto. Ci sediamo in un bar e beviamo avidi da una bottiglia di plastica, il conoscente dice che anche la gente è peggiorata, e tutti sono un po’ più stanchi. Chissà chi voteranno alle prossime elezioni. A guardarlo appare del tutto risanato, sorride spesso con gli angoli degli occhi strizzati in giù, e sembra dotato di un’umanità tutta sua mentre giudica il mondo. Muove la schiena con disinvoltura adesso, come se qualcuno avesse estratto la lama, o una lama, tra le sue costole, non si fosse mai infilata. Per tornare indietro prendiamo un tram, io mi appoggio a quella che sembra un’obliteratrice e invece è un dispenser di amuchina, così me la spalmo addosso irrimediabilmente. Quando scendiamo ci salutiamo senza stringerci la mano, sorridendo appena, il conoscente partirà il giorno dopo per Capalbio dove resterà per sempre.
A luglio il caldo rende difficile ogni gesto e anche continuare le mie ricerche sulle sparizioni sembra troppo ambizioso. Vado spesso al lago con un’amica che ha una situazione un bel po’ complicata da sbrogliare. Da qualche anno ha una relazione con un uomo che però sa con certezza non poter essere il suo fidanzato, è un amante, destinato a rimanere tale. – È troppo grande -, mi dice, e poi, tolta l’attrazione, e l’intimità, finisce per diventare sempre noioso. – È troppo distante dal mio mondo, non c’entra con me, eppure non riesco a farne a meno – aggiunge. Da sempre quest’uomo mi è simpatico e pur non conoscendolo faccio il tifo per lui. Il punto è che a giugno la mia amica ha conosciuto, grazie a una App di dating, un altro ragazzo. Uno che le piace moltissimo, – mi sono innamorata -, mi dice, solo che non prova per lui la stessa passione che ha per l’amante. Stare davvero con questo ragazzo vorrebbe dire rinunciare all’altro e lei non se la sente, sa che è giusto, ma ancora non ce la fa, così li vede entrambi. Un pomeriggio, ancora sdraiate sotto il sole, mi confessa che sa come andrà a finire. Finirà per abbandonare davvero l’amante, si concentrerà sul ragazzo che è la persona giusta con cui costruire qualcosa, e poi un giorno, quando staranno insieme da un po’, e da un po’ divideranno la casa e la vita, capirà che è tutto finito, forse lo capirà anche lui, ma per qualche anno ancora faranno finta che non sia così. Litigheranno, e poi si tradiranno, riprenderanno a mentire, e la vita senza l’altro gli sembrerà impossibile eppure anche l’unica cosa desiderabile. Si sono appena incontrati, ma è solo una questione di tempo prima che tutto finisca, la mia amica ne sembra sicura.
Quando arriva agosto vado via da Roma, un’altra amica mi ospita in campagna. Ha comperato una casa in un posto non troppo isolato, vicina ad altre due o tre a cui si accede da un unico vialetto. La casa è ancora praticamente vuota, così di giorno, quando lei esce, e io rimango a scrivere delle sparizioni, arrivano nella mia stanza le voci dei vicini, come se loro fossero sul palco e io in platea. Il giardino dei vicini confina col nostro, si tratta di una coppia di anziani contadini e dei loro due nipoti maschi, dalle voci mi sembra di capire che potrebbero avere nove, dieci, dodici anni. Quelle che nei primi giorni percepisco come chiacchiere indistinte col tempo si chiariscono nei contenuti, e distinguo la voce del bambino più piccolo da quella dell’altro. Imparo a che ora il nonno inizia ad avere fame, il tono assertivo della nonna, mai scomposta. Credo di capire che il bambino più piccolo abbia bisogno di cure particolari. Di visite, per sapere cosa gli succede, i sintomi sono un male alle gambe misterioso e un aumento di peso, credo. Il fratello, quando litigano, lo insulta sempre, e lo maledice, gli dice che finirà per passare la vita a letto. Allora la nonna, per difendere il nipote piccolo, urla al grande di smetterla, e per contenerlo, finisce a sua volta per insultarlo, così si scompone anche lei. Di solito tutto esplode nella tarda mattinata o prima di cena. Una volta però il bambino più piccolo ha iniziato a piangere a dirotto appena sveglio e sembrava che le sue lacrime non si sarebbero più fermate, appoggiata alla persiana speravo solo che smettesse, invece continuava e le sue grida per un po’ hanno riempito le colline attorno, si sono infilate tra le foglie delle querce e tra i raggi del sole bollente. Solo più tardi, quando è arrivato il padre da non so dove, è riuscito a calmarsi. Così, alla fine dei miei giorni in campagna, quando siamo arrivate al mare e Vasco Brondi cantava di questo nuovo Paesaggio dopo la battaglia ho rivisto l’estate dall’inizio e le facce, ho riascoltato le voci, gli slanci e i lamenti degli ultimi mesi, e ho ripensato a quando quanto è stato abbastanza e a quando quanto non è servito a niente, all’amore che finisce mentre incomincia, alle aspettative negate, a lasciar andare sempre ogni cosa, a fare spazio, ancora. Questa volta però il sole stava tramontando e il vento leggero rimetteva a posto i pensieri e i granelli di sabbia uno a uno. Come se finalmente il mondo si stesse ricomponendo.
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