Francesco Giordani per TRISTE©
“Let me watch those mountains from underneath
And maybe they’ll finally float off of me”
Valentine, Texas
Come più o meno ogni anno ho seguito il festival di Sanremo, un po’ per una sorta di (sadico, lo ammetto…) interesse etnografico per la manifestazione, un po’ perché «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», come cantò Terenzio in un’opera non per nulla intitolata Il punitore di sé stesso (come a dire: ben ti sta!). Più di un po’ anche perché, in fin dei conti, la canzone, ovvero quella cosa che la Treccani tanto genialmente quanto semplicemente definisce “breve componimento lirico destinato a essere cantato con accompagnamento musicale”, costituisce da venticinque anni esatti una delle mie manie predilette.
Devo riconoscere che di belle canzoni nel più celebre festival della canzone italiana quest’anno ne ho sentite ben poche, certamente meno di quante le dita di una mano possano sperare di contarne. Ciò è senza dubbio un inequivocabile segno dei tempi, su cui rifletto rimuginando la questione tra me e me o, più spesso e volentieri, parlandone con colleghi maniaci di ogni “partito” o indirizzo. In quest’epoca le belle canzoni si fanno più rare ogni giorno che passa, spesso si nascondono alla vista (e all’udito), quasi fuggono spaventate da un mondo distratto, chiassoso e ferocemente predatorio, come tigri siberiane appaiono solo a chi sa pedinarle e scoprirle con pazienza, sprezzo dell’ovvio e inguaribile gusto per lo sconfinamento in luoghi sempre più remoti.
Forse come al solito esagero e dunque subito aggiungo: finché quel che ci ostiniamo a chiamare “pop” (forma, ispirazione e stile del resto ci autorizzano a farlo) sa regalarci canzoni belle come molte di quelle che si ascoltano in Laurel Hell… Ebbene, direi che possiamo dormire sonni tranquilli. Confesso di aver sin ad oggi ascoltato la musica di Mitski molto superficialmente e senza un reale coinvolgimento sentimentale, più per dovere che per piacere. Né Puberty 2 né Be The Cowboy, pur con tutto il loro dorato luccichio (reso più accecante da sperticati elogi critici) mi avevano veramente, intimamente sedotto.
Eppure, con il sesto lavoro in studio della indie-popstar nippo-americana qualcosa è scattato ed è con ogni evidenza più di una flebile scintilla. Sarà quell’inaugurale Valentine, Texas che, coniugando Vangelis e Plainsong dei Cure, mi fa poi pensare a certe indimenticabili pitture wendersiane del quasi omonimo Paris, Texas (per farvi un’idea veloce, non se l’avete visto), sarà il delicato alito di leggerezza faticosamente (ri)conquistata che mi pare soffiare su canzoni come Stay Soft, Working For the Knife, Everyone, Should’ve Been Me o Heat Lightning, sarà qualcosa d’indefinito, un je ne sais quoi che in quanto tale continua a sfuggirmi e quasi mi costringe a riascoltare di nuovo, con maggior attenzione e cuore più aperto, sarà Sanremo o quel che volete, fatto sta che con Laurel Hell Mitski si è imposta alle mie orecchie in tutta la sua poetica grandezza.
Me ne convinco all’ennesimo ascolto di The Only Heartbreaker e Love Me More, che del disco sono architrave e cuore pulsante, con quel loro ammiccare a Kate Bush, a certo easy listening in odor di Mike Oldfield/Maggie Really ma anche, in misura uguale se non superiore, al sofisticato indie-pop di Everything But The Girl, Deacon Blue o Beautiful South. Canzoni che, dietro l’apparente “facilità (merito anche del coautore Dan Wilson dei Semisonic, maieuta già al servizio di Taylor Swift e Adele, tra le altre), tradiscono il lungo silenzio e la sofferta gestazione che le ha precedute. Quasi come il Travis del già citato Paris, Texas, anche Mitski ha vagato nei deserti dell’amnesia e della solitudine per ritrovare le ragioni di una vocazione che, dopo l’inaspettato successo, pareva persa per sempre. Quella vocazione tuttavia non era invero persa per niente e le bellissime canzoni di Laurel Hell sono qui a dimostrarlo.