Tiziano Casola per TRISTE©
E’ vero. Ci occupiamo davvero poco della scena musicale indipendente di casa nostra. Molto è dovuto a una mera questione di gusti personali, un po’ anche al fatto che non amiamo le polemiche e le gelosie che, purtroppo, spesso caratterizzano le discussioni intorno alla musica underground italica.
Per rimediare almeno in parte, però – perché siamo convinti che anche da queste parti ci sia del buono e ce ne sia tanto, se solo si gratta un po’ sotto la superficie – il nostro Tiziano Casola (accademico, musicista e appassionato di musica tout court) ha intervistato Filippo Strang, musicista, tecnico del suono e produttore, proprietario del VDSS Studio di Ceprano (l’acronimo sta per Vintage Distorted Shitty Sound), da tanti anni un punto di riferimento per chi in Italia ambisce ad un suono caldo e genuino, completamente analogico, come quello dei dischi indie rock, ‘quelli veri’.
T: Filippo, io e te ci conosciamo ormai da tanti anni, ovvero da quando io, suonando all’epoca in vari gruppi, iniziai a commissionarti i mastering online dei pezzi. Cosa che non avrei mai fatto se non mi fossi fidato ciecamente di un profilo come il tuo. E questo, è importante dirlo, non per chissà quale presunzione (parliamo di dischetti circolati giusti tra i miei amici), ma per il semplice fatto che per chi come me amava le registrazioni grezze, spendere soldi è sempre peccato. E nell’indie più “terroristico” l’autopunizione monastica è tutto. Hai mai letto quell’intervista a Jack White in cui lui parla del suo essere un fervente cattolico e di come per questo tenda ad autopunirsi con tecniche di registrazione faticosamente anti-moderne? Intendo più o meno quello. Per questo ti chiedo: come hai fatto a diventare un produttore di riferimento per gli amanti dei suoni sporchi di tutta Italia? O meglio, come hai fatto a trovare il giusto e perfetto equilibrio tra professionalità e credibilità underground?
F:È stato sicuramente complice il periodo storico in cui vivevamo quando tutto è iniziato. All’epoca non c’erano mezzi a basso costo per poter ottenere una registrazione di qualità. Avendo io già suonato in diverse band, avevo più volte provato a rivolgermi a vari studi in zona, ma senza mai riuscire ad ottenere il suono che avevo in testa. Parliamo del periodo 2006/2009, io ero in fissa con l’indie rock, il post punk, con un certo tipo di suoni analogici. Dall’America arrivavano i Liars, i Battles, che suonavano sporchi, ma comunque ben prodotti. Quel tipo di suoni che venivano ripresi dagli anni Settanta-Ottanta, ma riproposti in una veste più attuale. Avevo poi la fissa per Steve Albini, che sì, è considerato il dio dell’alta qualità, ma al contempo è pure il portavoce di una specifica attitudine al lavoro, che consiste nel non interferire più di tanto con ciò che entra nei microfoni. Insomma, bello o brutto che sia, ti tieni quello che hai suonato veramente. Purtroppo, quando da ragazzino andavo negli studi questo tipo di mentalità era impossibile da trovare. Tutti volevano post produzioni eccessive, roba che dal nostro lato non era richiesta. Mi sono allora detto: a questo punto mi registro da solo. Ho comprato un paio microfoni e una scheda audio economica da due ingressi (all’epoca manco avere due ingressi era scontato). Ho iniziato insomma con una qualità ridicola, ma che, unita alla predilezione per le registrazioni in flat e unita all’avere un certo tipo di cultura musicale, mi dava quello che cercavo. Non puntavamo alla qualità, ma a sentire ciò che suonavamo davvero.
T: Negli stessi anni ricordo che era impossibile trovare qualcuno disposto a registrarti un disco tenendo basso il volume della voce. Credo fosse un problema comune a tutti noi ragazzini indie…
F: Sì, essenzialmente quello. La gente era contenta delle mie registrazioni perché si sentivano forti le chitarre. La voce bassa e la base potente. Un’idea underground, ma che è alla base del suono americano. Tutt’oggi fatico con quelle band che mi chiedono di alzare troppo le voci.
T: Tu che frequenti tante band, dimmi, esiste ancora l’approccio presa-diretta? Le band fanno ancora le prove? Imparano davvero le canzoni? O puntano tutto sul fatto che tanto poi si faranno vari taglia e cuci in fase di registrazione? Conosco amici pigrissimi, totalmente indisposti a provare…
F: Io spingo molto sulla presa diretta e conosco molte band che ragionano in questi termini. La presa diretta rimane ancora la mia scelta fondamentale quando lavoro con una band.
D: Forse non mi sono spiegato bene, ma vabbè [torneremo sul tema più avanti]. Mi sembra il caso di chiederti: che ruolo ha avuto il tuo essere ciociaro in tutto questo? A me è chiaro da sempre che certe cose possano venire solo dalla provincia, penso a quanta roba favolosa sia arrivata nei decenni da Pesaro, Mestre o Frosinone, e quanta immondizia invece da Torino e Milano. Ti sto chiedendo insomma, che importanza hanno Morolo e la Ciociaria in tutto ciò? Intendo anche nel tuo essere imprenditore, anche dal punto di vista strettamente pragmatico.
F: Beh, la mia non è nemmeno una situazione di provincia, direi proprio di paese. Io sono di Frosinone, ho avuto uno studio a Morolo e ora a Ceprano. Non mi sono mai sentito uno di provincia, perché la gente viene qui a registrare da ogni tipo di realtà, da Milano, da Bologna, dalla Puglia. Chi non viene nel mio studio sono proprio i ciociari. Non è una questione di città-provincia, ma una questione di luoghi. I nostri luoghi, la Ciociaria, l’Agro Pontino sono sempre poveri di musica. In altre regioni ci sono molte più realtà. Io a parte quei quattro o cinque gruppi ciociari che ho prodotto non ho mai ottenuto altro da qui.
T: Filì, per me quattro o cinque gruppi buoni dalla Ciociaria io li considero tanti…
F: Sì, ma nelle campagne emiliane ne avresti molti di più!
T: Bah, io penso che a Roma quattro gruppi buoni non li troveresti in cinquant’anni…
F: Vabbè, ma Roma è una piazza modaiola. Insomma, per me il trovarmi in Ciociaria è sempre stato un problema. Poi ecco, mi sono saputo vendere bene e quello che non ho potuto ottenere dalla Ciociaria l’ho ottenuto dalle band venute da fuori per registrare da me. La Ciociaria è un limite.
T: Non mi aspettavo questa risposta, sai? Che belli gli imprevisti. Senti, a proposito di luoghi, negli anni sei stato un po’ in America, o sbaglio? Racconta un po’…
F: Sì, sono stato un anno fisso a New York, con una borsa di studio, studiavo ingegneria civile. Lì nel giro di tre giorni, tramite Craiglist, ho trovato una band che cercava un cantante-chitarrista. L’annuncio parlava di influenze tipo Fugazi, Bauhaus, Liars e dunque mi sono buttato. Io all’epoca suonavo il basso, quindi cantante-chitarrista mi ci sono improvvisato. Però grazie a questo essermi buttato ho fatto una delle esperienze più belle della mia vita. La band si chiamava Glass Rifle, ora suonano ancora come Odd Snakes e ancora siamo in contatto, si rivolgono a me per fare mix e mastering, sempre in ottimi rapporti. Sia chiaro, non eravamo una band stratosferica, mi sono preso la prima cosa che mi è capitata, ma loro mi hanno fatto vivere da newyorkese, mi hanno evitato quelle situazioni in cui si fa amicizia solo con gli italiani.
Detto ciò, vivere in America quell’anno mi ha insegnato una cosa che in Italia non esiste: mettere al primo posto le esigenze dell’artista, senza cercare di prendere il comando. Ognuno ha il suo orecchio, ognuno ha le sue fisse, spesso temporanee, ma quando si produce il disco di qualcuno è il produttore che deve fare lo sforzo di entrare nel mondo dell’artista. Se non ti piace il mondo delle persone che devi registrare, tanto vale non farlo il lavoro. Certo poi ci sono lavori che uno si prende per soldi, bisogna pur mangiare. Però, anche quando una cosa non ti piace, bisogna fare lo sforzo di entrare nella testa del cliente. Poi chiaro, ci sono quei casi in cui proprio non si può, ma su tre-quattrocento dischi mi sarà capitato due volte. Nello studio medio italiano questo invece succede in un caso su tre. Le band con cui davvero ho scazzato nella mia carriera saranno state un paio, su un totale di oltre duemila. Intorno vedo invece la tendenza a remare contro il cliente. Io invece credo che sì, si possono fare delle osservazioni, ma se queste non vengono accolte amen, non ci si può impuntare! In Italia vedo molto la paura dei produttori di sfigurare per colpa di dischi non riusciti, o non fatti secondo le loro logiche. Ma è una stupidaggine, d’altronde uno nel portfolio ci mette i risultati migliori. In secondo luogo, anche nel caso un disco non esca al massimo, l’amico del tuo cliente che lo ascolta lo sa benissimo come suona l’amico suo, lo sa che tu non puoi farci più di tanto. E di certo, se si rivolgerà a te, lo farà perché gli è stato parlato di te come di una persona disponibile. Nessuno cerca una testa di cavolo che punta a smontarti i pezzi!
T: Interessante questa cosa. Pensa che una volta ho fatto un corso di produzione audio e la prima cosa che mi è stata detta è proprio che il cliente va sempre fregato, perché tanto non capisce nulla, ed è il produttore che deve guidare la barca…
F: Scuola italiana. Immagina a porti in quel modo con un inglese o con un americano. Fuori dall’Italia questo approccio non esiste. Parliamoci chiaro, anche nel caso in cui l’artista dica al produttore “ti do carta bianca”, ma chi è che poi si porterebbe a casa un disco che non lo rispecchia? Chi è il malato di mente che pagherebbe per realizzare le aspettative di qualcun altro? Per me il produttore deve essere essenzialmente un tecnico. Non mi stupisco di quei colleghi che mi vedono pieno di lavoro mentre loro non battono cassa.
T: Da ascoltatore, come te, di musica Anglo-Americana spesso ho riflettuto su come si potesse calcolare la sincerità degli imitatori nostrani. Come è possibile che band di ispirazione americana come xxxx o xxxxxx mi suonano vuote, mentre nei tuoi vecchi Flying Vaginas, o negli Sky of Birds tutto fila così naturale? Dov’è la magia che porta voi e altri del frusinate a suonare musica americana senza risultare sterili imitatori?
F: Ricordati che ciò che è credibile per te è inappetibile per il 99% delle persone. A parte questo, credo sia perché esistono tanti imitatori troppo bravi. Tu hai citato Flying Vaginas e Sky of Birds, che sono band con grossi problemi in studio. Problemi in senso buono eh. Sono progetti pieni di limiti tecnici, che però li rendono credibili. Se tu sei un trasformista abile, in grado di adeguarsi alle mode facilmente, perdi autenticità. Nell’indie l’esibizione tecnica è la morte. Molti non funzionano proprio perché non sono in grado di rinunciare a quella vena di virtuosismo. Ah, dell’America ho dimenticato di dirti che ho partecipato alle registrazioni del disco di Kurt Vile (Bottle it in), al Tarquin Recording Studio, a Bridgeport. Lì ho capito che non esiste solo il limite dato dalla mancanza di tecnica, ma esistono anche dei limiti ‘esistenziali’…
T: Spiega un po’ questa cosa del limite esistenziale…
F: Intendo il desiderio di metterci del tuo a tutti i costi, anche se quel tuo è brutto. Ettore [Pistolesi, aka Wellworn Banana] questa fissa ce l’ha molto più di me. Non è il miglior chitarrista del mondo, è legnoso, pieno di frequenze medie, ma è il mio preferito perché il suo suono non sarà mai banale come quello dei bravi imitatori di cui parlavo prima.
T: Sì vabbè, ma questa è la solita storia che a suonare bene “so buoni tutti”, mentre nel punk ognuno suona male a modo suo. Io ti stavo chiedendo un’altra cosa: perché al mio orecchio le band ciociare suonano ‘oneste’ nel fare musica americana? Perché, emotivamente parlando, non sgamo nulla di sospetto?
F: A parte che bisognerebbe capire quali band ti suonano ‘disoneste’, in ogni caso, credo sia perché queste band sono disposte a tenere molte imprecisioni su disco, errorucci che nessun altro si terrebbe…
T: Tu dici insomma che percepisco l’imprecisione tollerata come sintomo di onestà intellettuale?
F: Se tu sei un ascoltatore di musica mainstream, la prima imprecisione di dà fastidio. Se sei abituato alla roba underground no. Sono due scale di tolleranza diverse. Per noi da ragazzini, che ne so, i Joy Division potevano essere il massimo della perfezione formale, ma falli sentire a uno che non è abituato ai suoni del punk…
T: Tornando sulla terra, in sintesi, se tu dovessi divulgare a un pubblico di non esperti, come spiegheresti il tuo approccio alla registrazione e la promozione discografica?
F: Far sentire dalle casse ciò che tu fai nella realtà. Se fai schifo nella realtà, è giusto che tu faccia schifo nelle casse.
T: Il tuo scopo è quindi documentare?
F: Sì. Io punto alla riproduzione fedele della realtà. Se la tua roba registrata suona male vuol dire che hai bisogno di fare più prove, di ripensarla meglio.
T: Mi piace. Mi piace, perché contraddici tutta quella narrazione ‘evoluzionistica’ sul rock, in cui i produttori sono sempre meno tecnici e sempre più artisti. Cambiamo discorso: mi ha sempre affascinato il boschetto dietro il vecchio VDSS, dove avete girato quel video bellissimo. In città una cosa simile non sarebbe mai stata possibile. Ci sono luoghi “secondari” dei tuoi studi (il vecchio e il nuovo) che hanno avuto importanza nella tua poetica di produzione?
F: Non amo il trekking, ma avere il verde intorno è importante. Uscire dallo studio e non trovare la città che ti sovrasta, ma la pace del verde, mi ha sempre dato tantissimo e ha sempre dato tanto a chi è venuto a registrare qui. Anche il fatto che ci sia luce naturale in studio, il poter vedere il vento che muove gli alberi dalle finestre… Tutte le volte che ho lavorato in città è stato emozionante, nel senso che per me è stato esotico, ma non vorrei una quotidianità così.
(Mi torna in mente questo video-anteprima di un disco di Struiea)
T: torniamo un attimo indietro, che c’è una cosa che mi preme. Dicevi che voi Flying Vaginas avevate delle pecche tecniche. Beh, per me è strano, perché vi ho sempre percepiti come tecnicamente abili. Nel senso di macchina-band perfettamente funzionante. Sai, il fatto che usavate giri semplici e spalmati all’infinito mi faceva pensare a voi come esecutori molto sicuri. Forse in virtù di una mia regola secondo la quale se non sei bravo tecnicamente devi puntare sul barocchismo, sulle melodie forbite… Una scrittura complessa camuffa le imperfezioni, insomma. Voi eravate minimali, dunque vi percepivo come tecnicamente bravi!
F: Noi suonavamo strumenti che non erano i nostri. Ettore era un bassista prestato alla chitarra, io un bassista prestato alla batteria, Erika una cantante prestata al basso [di cui è doveroso segnalare questa]. Non che facessimo schifo eh, ma il confronto con band più capaci l’ho sempre sofferto, ma forse per questioni di perfezionismo, oppure perché sono condizionato dall’esperienza in studio. Quando registro i Black Tail, padroni totali dello strumento, mi accorgo di tutti i miei limiti.
T: Vabbè, alla fine per me ascoltatore tutto dipende dalla qualità dei pezzi…
F: Sì dai, i pezzi ce li avevamo.
T: Off topic: il tuo cane Bacon è da sempre con te in studio, dunque ha ascoltato traccia per traccia centinaia di dischi. Cosa credi succeda nella sua testolina mentre le band suonano?
F: Questo lo sa solo Dio. Un cane paziente sicuramente.
T: Torniamo alle cose serie, ora che abbiamo capito cosa ti piace, potresti spiegarci invece cosa NON ti piace nel mondo degli studi di registrazione? Quali sono le cose che non faresti mai?
F: Io ormai faccio tutto, riesco ad affezionarmi a tutto, pure alla trap. Quando un pezzo funziona, funziona. Mi piace anche la sfida di imparare altri generi. Magari inizio per scherzo e poi finisco per voler imparare seriamente. Escludo solo i neomelodici. Non mi piace invece chi non capisce che quello che fa in studio dovrà poi farlo live. C’è chi si presenta in studio senza saper nemmeno suonare le proprie canzoni. Mi irrita questa mancanza di rispetto, verso di me e verso le band stesse.
T: Ahhhh! Questa è la risposta che cercavo qualche domanda fa! Concordi con me che l’imparare a suonare prima di registrare non esiste più?
F: No, non esiste più. Sono arrivato al punto di dover chiedere ai clienti una prova del loro saper suonare prima di accettare la prenotazione.
T: Anche perché in questi casi ti si prospetterebbe un lavoro folle…
F: Esatto. Solitamente chiedo una registrazione delle prove per orientarmi. Quando capisco che non è aria, piuttosto che imbarcarmi in imprese senza via d’uscita, preferisco vendere una canzone scritta e suonata col mio assistente.
T: Bravo. Senti, facciamo i polemici, di chi è la colpa di tutto ciò?
F: La colpa è del desiderio di immediatezza dettato dal sistema culturale in cui viviamo, complici i social, che creano delle urgenze insensate. L’idea costante che le proprie vite debbano arrivare ad una svolta, la convinzione di essere destinati a qualche forma di successo, ma senza nessuna abilità.
T: Sono d’accordo, ma preciso che esiste in questo campo una distinzione tra i social precedenti e successivi l’avvento degli smartphone. MySpace, ad esempio, a mio giudizio incoraggiava il lavoro di gruppo nelle band. Motivava i ragazzini a registrare e a mettere a disposizione i proprio pezzi, in tempi in cui la registrazione richiedeva ancora un grande sforzo, che fosse questo economico o d’ingegno in caso di mancanza di soldi. È l’abitudine allo smartphone il limite, la continua interruzione della concentrazione, la continua interruzione della noia…
F: Guarda, da un anno non ho notifiche sul telefono e la mia produttività è raddoppiata. L’eccesso di stimoli ammazza la creatività, perché non sei più motivato ad uscire dalla disperazione del quotidiano. Lo scroll su Instagram ti risolve per un attimo, dunque non accumuli voglia di fare cose. Io mi sono dato degli orari, per sentire i clienti…
T: Questa per me è una cosa responsabile, da lavoratore in proprio coscienzioso. Viviamo in una cultura in cui siamo indotti a mettere al servizio del lavoro tutto il nostro tempo, a percepire la nostra esistenza, anche corporea, come la gestione di un’azienda. È in qualche modo previsto che tu ti senta in colpa perché mentre dormi o mangi stai perdendo opportunità di guadagnare. Insomma, mi sembri abbastanza padrone di te…
F: Io lavoro decisamente troppo. Per quanto io cerchi di tagliare le ore, attacco alle 8:00 e stacco alle 20:30. Ora sto iniziando a mettermi dei paletti e ho anche un assistente che mi toglie il lavoro più meccanico. La verità è che questo è un lavoro talmente alienante che io non so più cosa sia il divertimento. Se il mio lavoro è anche la mia passione, è facile che diventi un po’ una prigione.
T: Capito benissimo. Terzultima domanda, la più importante. Quando ti ho conosciuto suonavi con Ettore ed Erika. Mi colpiva molto la facilità con la quale riuscivate a pensare tutto al meglio nell’economia del suono complessivo. Quanto è importante per te suonare con le persone a cui vuoi bene?
F: Ettore, Erika, Riccardo sanno come fare squadra. Capiscono che è necessario avere dei ruoli definiti e fidarsi degli altri. Ognuno il suo, senza interferenza degli altri. Nei Flying Vaginas la qualità del suono era compito mio, dunque decidevo io. Il secondo disco lo abbiamo ri-registrato due volte, per delle mie esigenze, ed Ettore ed Erika si sono prestati senza alcuna lamentela, tutte e tre le volte. Sanno che quando io ho una fissa, il più delle volte questa è fondata. Viceversa, io sono disponibile allo stesso modo nei loro confronti. I nostri caratteri sono diversi, ma complementari. C’è un dare-avere che funziona sempre.
T: C’è qualcosa di cui vorresti parlare che io non ti ho chiesto?
F: Mi chiedo, Filippo, per quale motivo pensi che la musica underground suonata sia in declino? Perché è sempre più difficile trovare locali con una programmazione valida? Mi rispondo che sarebbe troppo facile incolpare “la gente che non va ai concerti”. Credo che il problema più grosso sia l’impossibilità di trovare un locale friendly anche per chi non è del giro. Ricordo di serate con volumi stratosferici, che magari andavano bene per me, ma facevano scappare qualunque persona normale che voleva solo prendere una birra.
T: io ho smesso di andare ai concerti per la storia degli orari. È improponibile per me andare a una serata di mercoledì sera con la band che attacca alle 23.30 o dopo mezzanotte, tornare a casa tardissimo e pretendere di essere produttivi il giorno dopo. Il mio andare ai concerti è finito con l’università infatti.
F: Ma sì! La storia ridicola secondo la quale la gente non uscirebbe prima delle 23:00. Non ho mai capito che cosa avrebbe impedito alla gente di uscire all’ora di cena!
[si citano rari casi virtuosi di concerti iniziati e finiti presto]
T: Mi piace tutto questo tuo calcare sulla dimensione live. In ultimo, facciamo i vecchi, dai un consiglio ai giovani… anzi, la musica con chitarre tornerà?
F: Ma guarda che già sta… [ride]
T: Dai, ho capito, dillo…
F: Beh da quando sono usciti fuori i Maneskin credo che il mercato degli strumenti sia in salita… [ride] è ridicolo eh, ma è così…
T: A proposito, visto che sono usciti da quel talent con Agnelli… secondo te è plausibile l’ipotesi che lui abbia visto in loro dei potenziali Afghan Whigs ‘per famiglie’? Sai, quelle chitarrine funky-ma-rock, l’attitudine ‘sporcacciona’, quel video che sembrava vagamente quello di Debonair… D’altronde sempre gli Afterhours hanno sempre un po’ guardato a Greg Dulli e soci… Vabbè, sto scherzando. Consigliaci qualcosa da ascoltare và.
F: Post Nebbia mi piace. Poi il disco nuovo dei Big Cream, che ormai sono i Protomartyr italiani, li ho prodotti io. Pure l’ultimo disco di Bartolini è bello, anche questo l’ho masterizzato io. Mi sento di consigliare solo roba in italiano, perché sto diventando un sostenitore dell’idea di scrivere in italiano…
T: Colpo di scena!
F: Sì, secondo me un ipotetico futuro della musica con chitarre può stare proprio nei testi in italiano. L’abbandono della lingua italiana da parte del mondo underground è una colpa pure nostra, che abbiamo sottovalutato l’importanza di quello che si dice nelle canzoni. L’esserci anglicizzati non ha portato nulla di buono.
T: Ho capito benissimo cosa intendi, anche io da tempo ho la stessa sensazione. Beh, penso che possiamo finirla qui, grazie tante Filippo!
F: Grazie a voi!