R.E.M. – Murmur

Francesco Amoroso per TRISTE©

Questa storia sarebbe dovuta iniziare il 12 Aprile 1983.
Ma quel giorno mi trovavo probabilmente troppo impegnato a fare i compiti, a tirare calci al pallone nel polveroso campetto di calcio sotto casa o a struggermi per la mia compagna di classe Federica, lei sì già quasi una donna, mentre io ero ancora un ragazzino dodicenne, suppongo impubere, ma con la testa già piena di fantasticherie (baciavo emozionato la bottiglietta di coca-cola alla quale lei aveva bevuto in gita, con buona pace di ogni profilassi sanitaria).
Che quel giorno fosse uscito Murmur, l’album d’esordio di una band di giovani universitari di Athens, in Georgia, non avrei potuto in ogni caso saperlo e, seppure avessi ricevuto la notizia, ho l’impressione che mi avrebbe lasciato piuttosto indifferente.

Questa storia, invece, inizia nella notte del 24 dicembre del 1987, quattro anni e mezzo dopo.
In quei quattro anni e mezzo, la pubertà mi aveva raggiunto, lasciandomi praticamente sfigurato (che bel bambino che ero da piccolo…) e in preda a tempeste ormonali che solo in quei giorni stavo finalmente riuscendo a placare. Ero ancora un inguaribile e un po’ ingenuo romantico, ma, almeno, non dovevo più limitarmi a baciare (di nascosto!) le bottigliette usate dalle mie compagne.
Soprattutto, però, per quel che qui può interessare (seppur relativamente), quei quattro anni e mezzo trascorsi dall’aprile del 1983, avevano rafforzato in me una smisurata passione per la musica – passione che, a distanza di quasi quarant’anni, mi sembra di poter definire inestinguibile.

Ascoltavo gli Smiths e i Cure, gli U2 e i Bauhaus, il dark e il punk di Clash e Sex Pistols, gli Echo & The Bunnymen. Ero stato già abbastanza fortunato da scoprire band oscure come i Coil o The Pastels, mi ero già innamorato perdutamente di The Pale Fountains e di The Room. Ma avevo quasi scientificamente evitato la musica americana.
Se oggi dovessi dare una spiegazione razionale di tale scelta, credo che non ci riuscirei, ma all’epoca mi dicevo che il mio tempo e le mie finanze erano troppo esigui per seguire tutto e quindi avevo focalizzato i miei ascolti e i miei acquisti (che, almeno allora, in qualche modo, inevitabilmente corrispondevano) alla musica inglese, con la quale da due o tre anni ero entrato in contatto anche grazie al successo commerciale di alcune band e alla passione di amici più grandi.

Però, dalla televisione e dalla radio (un’altra televisione e un’altra radio…), qualcosa della musica americana, in grande fermento, naturalmente filtrava e, intorno all’estate del 1987, avevo ascoltato un brano che mi aveva stregato e che finì per spezzare quell’assurdo rapporto monogamico che avevo instaurato con i musicisti inglesi: su Videomusic girava -credo dal settembre del 1987- il video di The One I Love, una canzone che, già dal titolo, esercitava un’attrazione fatale per un innamorato dell’amore come me (che poi il testo abbia dei passaggi abbastanza cinici non è importante, visto che all’epoca dei borbottii di Stipe comprendevo poco). Dei R.E.M. avevo sentito parlare e avevo anche ascoltato qualcosa, ma mi ero ben guardato dall’acquistare i dischi della loro discografia.

Quando, però, a fine novembre arrivò anche It’s the End of the World as We Know It (And I Feel Fine), quell’album dalla copertina fatta di foto sovrapposte e sfocate, che più volte mi aveva tentato nei mie quasi quotidiani giri di ricognizione nel principale negozio di dischi, cominciò a diventare un vero e proprio tarlo: lo volevo a tutti i costi, ma non me la sentivo di contravvenire alla scelta compiuta qualche anno prima e alla quale avevo, sino ad allora, tenuto fede con ottusa tenacia.
Ma quando un caro compagno di classe mi regalò, per Natale, un buon da spendere in quel negozio, capitolai definitivamente: mi sembrò che, in fondo, non destinando i miei soldi all’acquisto, fossi autorizzato a comprare il mio primo disco americano.

Da lì fu una valanga travolgente. Document monopolizzò gli ascolti di quei giorni e in capo a una settimana avevo già deciso di acquistare i quattro album precedenti del quartetto di Athens, di cui, nel frattempo, avevo approfondito la conoscenza, attraverso le riviste musicali italiane e inglesi che acquistavo già da qualche anno.
Così il regalo della Nonna per il Natale del 1987 fu cambiato in corsa (non ricordo a cosa avevo pensato prima) e nella notte del 24 Dicembre 1987, dopo aver spacchettato i regali e subito prima di andare a dormire, misi sul piatto dello stereo (quello di mio Nonno, sul quale ho sentito per la prima volta tanti capolavori dell’epoca) il primo degli album che avevo trovato sotto l’albero. Si trattava, appunto, di Murmur.

Mentirei se dicessi di ricordare esattamente la sensazione provata al primo ascolto, ma certamente, in quei giorni, Murmur, Reckoning, Lifes Rich Pageant e Fables Of The Reconstruction (insieme a Document) mi aprirono un mondo e mi portarono a considerare come fosse stato sciocco e avventato da parte mia privarmi di un’infinità di magnifiche band e straordinarie canzoni per una scelta ottusa e infantile.
Posso quasi dire che i R.E.M. (pronunciati sempre “rem”) finirono per rappresentare lo spartiacque tra la mia adolescenza musicale e la mia maturità.

Sarà che li ho scoperti tutti insieme e ho imparato ad amarli nello stesso periodo della mia vita, ma non ho mai avuto una preferenza assoluta per uno dei primi quattro album di Stipe, Mills, Buck e Berry (formazione imparata subito a memoria, come quella degli Smiths, dell’Italia del 1982 o del Napoli che, proprio quell’anno, aveva vinto il suo primo scudetto).
Ma se oggi mi ritornano in mente questi ricordi (che, probabilmente solo per me, sono commoventi) è perché, a quarant’anni esatti dall’uscita di Murmur, mi sono reso conto di non aver mai scritto dei R.E.M. e considero questa omissione assolutamente imperdonabile.

Murmur, allora.
L’esordio dei R.E.M. (se si esclude il mini Chronic Town, riscoperto da tanti solo grazie alla sua inclusione nella versione in cd della raccolta di b-side Dead Letter Office, uscita proprio nel 1987), ascoltato a distanza di quarant’anni dalla sua pubblicazione, rimane uno degli album di debutto più avvincenti e incredibili della storia del rock indipendente (e anche di quello mainstream, a dirla tutta).
Dodici canzoni che, anche a risentirle oggi, suonano fresche e originalissime, piene di personalità e, soprattutto, ognuna a suo modo, indimenticabili. Non c’è un solo brano che non sia una potenziale hit da college radio: a cominciare da quella Radio Free Europe che sapeva tanto di ribellione e al contempo di nostalgia, passando per Pilgramage, nella quale si poteva cominciare a familiarizzare con le magnifiche armonie vocali che tanta importanza hanno sempre avuto nel suono dei R.E.M., per Laughing con quella chitarra jangle commovente e per Perfect Circle, semplicemente una canzone… perfetta (e il prototipo delle ballate a là R.E.M.), fino ad arrivare a Catapult, Moral Kiosk e 9-9, brani che, con il loro ritmo ossessivo (sì, certo, la voce di Stipe e le chitarre di Buck, ma il basso di Mills e la batteria di Berry non scherzavano mica), forse adesso potremmo definire post punk, al folk chitarristico e romantico di Shaking Through e alle finali We Walk (il giro di chitarra…) e West Of Fields che, con le loro sonorità tra Byrds e new wave, rappresentavano un po’ la summa del suono dei primi R.E.M..

Discorso a parte merita un brano come Talk About The Passion.
Innanzitutto per il suo titolo, perché a diciassette anni (e mezzo) tutto quello che volevo era parlare della passione! Poi per il suo testo, o almeno quello che riuscivo a intuire allora. Un solo verso, credo: “Not everyone can carry the weight of the world“. All’epoca mi sembrò scritto da Morrissey. Adesso riconosco lo stile di Stipe, lo stesso che ha scritto Everybody Hurts: asciutto, semplice, senza fronzoli, ma di grandissima potenza e impatto emotivo.
E, last, but not least -come dicono quelli bravi- per quelle le chitarre cristalline, per quella melodia piena di nostalgia e dolore ma allo stesso tempo ebbra di vita, per il cantato oscuro e mormorato di Stipe e per il dialogo tra il basso e la batteria, semplice ed efficacissimo (e per quello che ho sempre supposto fosse un violino, ma non ne sono sicuro neanche adesso).

Le chitarre in stile Byrds di Buck, i testi confusi e pieni di oscuro fascino e la voce nasale, ma melodiosissima di Stipe, il basso e il celestiale controcanto di Mills e la batteria puntuale di Berry, sono, da allora, diventate una sorta di marchio di fabbrica per i R.E.M. (con poche -per me abbastanza imperdonabili- digressioni…).
Con la sua copertina enigmatica (che ora scopro raffigurare un campo coperto di viti kudzu, “la vite che mangia il sud“) e le sue canzoni piene di fascino e di vita, Murmur è uscito il 12 aprile 1983, esattamente quarant’anni fa oggi, e ha avuto subito un notevole successo (vincendo addirittura il titolo di Disco dell’Anno per Rolling Stone (America) preferito a album come Thriller di Michael Jackson, Synchronicity di The Police e War degli U2).

Parlando di passione, sebbene la mia storia d’amore con questo album e con i suoi artefici sia iniziata solo quattro anni e mezzo dopo, il 12 Aprile 1983 è una di quelle date da celebrare.
Un momento probabilmente fondamentale per la storia della musica, ma, senza dubbio alcuno, un momento centrale della mia esperienza di appassionato di musica.
Sono quarant’anni che Murmur è uscito, ma il trascorrere del tempo ha semplicemente aggiunto ulteriore fascino a un album che, già al momento della sua uscita, suonava magicamente senza tempo.

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