JFDR – Museum

Peppe Trotta per TRISTE©

Non è raro per un artista ritrovarsi all’indomani della realizzazione di un’opera importante di fronte ad un improvviso vuoto, una stasi che vede prevalere una sorta di indolenza creativa. Dopo aver assecondato la propria vena ecco sopraggiungere il blocco e trovare un modo per superarlo diventa una necessità. È esattamente ciò che è accaduto a Jófríður Ákadóttir dopo aver pubblicato nel 2020 New Dreams, secondo tassello della sua carriera solista sotto il moniker JFDR, intrapresa a partire dal 2017 con la pubblicazione di Brazil e con alle spalle le esperienze condivise con la gemella Ásthildur come Pascal Pinon  e la militanza nel trio Samaris.

A fornire alla giovane musicista la giusta spinta per risollevarsi è stato un insieme di fattori virtuosamente combinati. Da una parte uno sguardo al recente passato, dal quale sono riemerse idee di canzoni incompiute, dall’altra la complicità di amici e familiari che in modo diverso hanno contribuito alla realizzazione dell’album.
L’intento è stato quello di cristallizzare in istantanee sonore le sensazioni e gli attimi connessi appunto alla capacità di ripartire e il risultato è un disco intimista dai tratti lievi, racconto di inquietudini e speranze dipinto con affascinante pacatezza.

Affiancata in sala di registrazione dal sodale Shahzad Ismaily, la Ákadóttir prosegue con Museum un processo di affinamento compositivo già evidente nel suo predecessore, riuscendo a fondere in un insieme perfettamente coerente il suono rigoglioso di melodie profondamente  avvolgenti – su tutte svetta l’ammaliante The Orchid –, scansioni ritmiche nette (Life Man) e partiture essenziali rifinite da misurati innesti elettronici (Air Unfolding).
È un pop atmosferico dai margini indefiniti, fatto soprattutto di piano, chitarra e synth, aderente ai canoni dell’immaginario islandese – più Sóley e Múm che Bjork e Sigur Rós – ma capace di trovare soluzioni meno immediate, venate da lievi dissonanze (Valentine) e contraddistinte dal suono metallico di un langspil autocostruito da Úlfur Hansson (Sideways Moon).
Su tutto scivola, con l’eccezione della strumentale  Flower Bridge, la voce sommessa di Jófríður che racconta di amore e solitudine senza mai cedere all’enfasi, con un tocco di gentile eleganza sempre più peculiare dell’universo musicale di JFDR.
Semplicemente incantevole.

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