
Francesco giordani per TRISTE©
Il notevole videoclip di Mind’s A Lie dei londinesi High Vis pare a tratti raccontare il sequel delle imprese del giovanissimo protagonista di un altro videoclip, ovvero This Can’t Go On di Bill Ryder-Jones, che tanto avevamo amato nei primi mesi di quest’anno. Nella staffetta tra il primo e il secondo tempo del racconto, esaurita la spinta idealistica della prima giovinezza, l’ex adolescente ormai adulto continua la sua folle corsa a testa bassa, che appare improvvisamente come priva di una meta, più simile allo sbattere d’ali di un uccello in gabbia o allo smanacciare di un pugile che prende a pugni la sua ombra, tenuto in vita solo dal vibrare della propria rabbia.
Se Mind’s A Lie si rivela complessivamente un fulmine abbastanza isolato all’interno di un terzo album, Guided Tour, meno teso e incalzante dei due che l’hanno preceduto, la luce che esso riesce a proiettare (quasi suo malgrado) su una zona della “scena” rock contemporanea è comunque significativa. A dominare questa zona è soprattutto un’aria di stanchezza rabbiosa e di inesorabile disfacimento, la sensazione di aggirarsi in una waste land nella quale il senso e la finalità di ogni decisione vanno conquistati o rinegoziati giorno per giorno, come testimoniato, certo con tutt’altro respiro, anche dagli ultimi lavori di Cure e Fontaines D.C.
Bisogna ricordare tuttavia che questo non è vero ovunque e allo stesso modo, nel resto del mondo. Il disincanto per così dire “boreale” che imprigiona l’odierno rock anglo-americano, pare infatti diradarsi a sud dell’Equatore, sciogliendosi nel suo esatto opposto, in una sorta di vivacissimo, estatico, controcanto “australe” che risuona sui ritmi di un differente fuso orario. Delle imprese di Johnny Hunter e Radio Free Alice -entrambi tornati nel 2024 con singoli ghiottissimi- vi abbiamo a suo tempo già parlato. Ad esse avremmo dovuto aggiungere quest’anno almeno una citazione per album scintillanti come Painting of My Time dei Floodlights e PRATTS & PAIN dei Royel Otis , ma tempo e distrazione non ci hanno aiutato.
Per Why Is the Colour of the Sky?, secondo album dei Bananagun, non ci facciamo cogliere impreparati. Senza troppi giri di parole, si tratta infatti di uno dei dischi più spassosi e piacevolmente schizoidi dell’anno. L’estro affabulatorio, ad alto tasso psichedelico, della band di Melbourne raggiunge in questa sua più recente manifestazione un equilibrio a tratti magistrale, librandosi fra lampi di barrettismo assortito, acidissime epifanie garage-psych e avvolgenti ragnatele ritmiche sospese su space jazz, prog canterburyano (qualcuno ha detto Gong? Ricordiamo che Daevid Allen era del resto australiano…) e afrobeat cosmico, che davvero si vorrebbe non finissero mai.
Nulla che possa forse sorprendere il più scafato e cinico degli ascoltatori contemporanei. Eppure, nel contesto di un’economia musicale “circolare” ineluttabilmente votata al riciclo di forme, maniere e stili da abbinare e indossare quasi fossero abiti vintage, i Bananagun (per nostra e loro fortuna) non si accontentano di animare il solito mercatino delle pulci. Gli Australiani vogliono essere una band reale, non una semplice illusionistica rappresentazione da teatrino delle ombre cinesi, e ci riescono grazie alla forza di una vitalità autentica, fresca, debordante, che suscita visioni e rivelazioni nel cervello di chi voglia prestarle ascolto. In quest’inverno “boreale” del nostro rock, il cielo che i Bananagun invitano a guardare ha un colore diverso se osservato dal loro emisfero australe: il colore dell’Allegria. La stessa che, mi auguro, torni a rapirci nei mesi e negli anni che ci attendono.