Francesco Giordani per TRISTE©
High Vis – Blending
Parlando dell’esordio degli Yard Act avevo annotato che con esso andava in qualche maniera congedandosi una stagione del rock britannico a cui Skinty Fia ha poi dato l’ultimo abbacinante colpo di spada. Se la relativa stanchezza di band “vecchie” (Sports Team, Life) e nuove (The Lounge Society, comunque non disprezzabili, Courting) pare confermare questa mia impressione forse pregiudiziale, il secondo lavoro della band di Graham Sayle, da Liverpool, subito la smentisce a suon di schiaffi e pugnalate del tutto impreviste.
Picchiando su quello che qualcuno ha già abilmente ribattezzato “jangle core”, gli High Vis rimescolano nei 37 minuti del loro Blending (Dais Records) inequivocabili asprezze hardcore (ma anche molto skinhead e Oi! street punk) con un’estetica complessiva che può ricordare tanto gli Hüsker Dü quanto gli Happy Mondays, gli Sugar come pure gli Sleaford Mods e, perché no, gli stessi Oasis. “A song born out of late nights waiting your turn to shout your struggle that no one will listen to”, così la band presenta il roboante brano-manifesto Talk for Hours, enunciando un programma neorealista che non dispiacerebbe a Morrissey. Le altre canzoni in scaletta, inni proletari scalfiti nel cemento della suburra più paranoide e disillusa, non sono da meno (“Never satisfied/A sum of parts/Never whole” si sente gridare nella splendida Blending). Da qui, il giovane rock inglese può davvero tornare a guardarsi allo specchio per rivoluzionare sé stesso. O almeno questo è il mio auspicio.
Thus Love – Memorial

Di questo trio del Vermont nulla avrei probabilmente mai saputo se l’amico Francesco (sempre sia lodato!) non mi avesse suggerito qualche un mese fa l’ascolto di Repetitioner, brano semplicemente clamoroso che ritrovo oggi in apertura dell’esordio Memorial (Captured Tracks). Il resto dell’album mi sembra collocare la giovane band di Brattleboro in scia a quel rinascimento synth-pop-wave americano che, negli ultimi due anni, ci ha regalato le bellissime prove di Choir Boy e Nation of Language. I Thus Love non sono ancora, probabilmente, al livello di questi ultimi ma ben poco, canzoni alla mano, hanno in realtà da invidiare. Il che è straordinario, a pensarci. Creazioni come In Tandem o Innamorato rovesciano dentro le orecchie melodie strabordanti di epico romanticismo, scandite da riff e ritornelli da singalong selvaggio che sanno riaccendere il mito fiammeggiante di The Sound, Psychedelic Furs, Cult, Echo & The Bunnymen e, ovviamente, Cure. Proprio una certo “american gothic”, dalle finiture vagamente lynchane (tornano in mente i Chromatics), pare permeare il mondo stralunato ma sempre emotivamente vibrante della band, al fondo del quale brilla un senso di comunità e appartenenza che a tratti sorprende per la sua forza: ‘Cause, in tandem, there’s no reform/ ‘Cause all we are is stars/ And in time, we’ll return to form/ ‘Cause all we are is discomfiture”.
Woru Roze – Soil

Last but not least, segnalo volentieri l’ep d’esordio di questi nuovi e giovani alfieri dell’undergorund pontino, sempre a me carissimo. L’ho scoperto per caso e, abbastanza imprevedibilmente, mi ha colpito da subito. Sebbene non mi reputi la persona più indicata per discettare di stoner rock, psichedelia e post-metal, qualcosa delle “heavy gloomy melodies from the swamp” forgiate dal trio (nel quale confluisce qualche pezzo degli Octopus Provance) ha intrigato le mie fantasie, principalmente grazie alle malinconiche sfumature emocore di alcuni passaggi che, tra gli altri, fanno pensare ai …And You Will Know Us By The Trail Of Dead, (band per la quale ho sempre nutrito una profonda ammirazione). Ma, al di là dei riferimenti, convince l’impasto sonoro, scuro, pesante, viscerale, così come la coesione degli intrecci strumentali, sempre molto lavorati. Nautilus, in questo senso, è già più di un semplice punto di partenza.
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