Quando eravamo bambini non ci accorgevamo nemmeno del diverso, a meno che qualcuno non ce lo facesse notare. Da preadolescenti, invece, cominciavamo ad avere paura di essere noi i diversi e tentavamo di uniformarci il più possibile al gregge: ci vestivamo tutti allo stesso modo, ascoltavamo la stessa musica, guardavamo gli stessi programmi alla tv.
Poi arrivava l’adolescenza e, per qualcuno, la voglia di trasgredire, di essere unico, di non essere solo un numero in una massa informe di standardizzati ragazzi brufolosi che cominciano ad avere la necessità di una doccia almeno quotidiana.
Durante i miei primi anni di liceo, passati in una provincia conformista e vagamente bigotta (almeno in superficie), questa spinta verso la ribellione (esclusivamente, per me, culturale ed estetica) è stata lungamente combattuta dalla forza uguale e contraria di mostrarmi un bravo ragazzo, uno di quelli che le mamme delle mie “spasimate” potessero apprezzare sin dalla prima occhiata.
Almeno finché non ho incontrato, per interposta persona, Laura.
Laura aveva un anno più di me (forse due) e viveva a Roma, dove frequentava un liceo classico “per bene” insieme alla mia cara cugina. E Laura passava a mia cugina una serie di cassette (rigorosamente originali visto che i suoi, genitori separati in un’epoca in cui non era ancora la norma, evidentemente le compravano qualsiasi cosa volesse per farsi perdonare di chissà che cosa) che mi lasciavano un po’ perplesso.
Avevo cominciato ad amare la musica sin da quando ero bambino, nonostante a casa non ne girasse molta, ma ascoltavo musica “educata”, cantanti carini e band che anche i miei nonni avrebbero approvato.
Le cassette di Laura, invece, avevano, sin dalla copertina, qualcosa di inquietante e provocatorio. Ricordo che mia cugina mi propose di ascoltare insieme Give ‘em Enough Rope dei Clash e che trovai quell’album davvero orribile. Ma la cosa che più mi preoccupava, mentre ascoltavo quella musica che mi sembrava cacofonica, era che fosse suonata da drogati poco raccomandabili, malvestiti e chiaramente sporchi.
Mi dissi così che non avrei più ascoltato le cassette “di Laura”.
Poi, però, un Sabato, mia cugina Stefania portò a casa da scuola un’altra cassettina, con una strana copertina sulla quale quattro tizi, vestiti in maniera stravagante e dal taglio di capelli improbabile, navigavano su una barca in una grotta dall’innaturale luce blu notturna.
Ok, era inquietante, ma meno dei Clash, e poi la musica mi rapì immediatamente.
Era il 1984 e quello era Ocean Rain il quarto album degli Echo & The Bunnymen.
Non sapevo nulla della band, nulla del suo leader Ian McCulloch, del nuovo sound di Liverpool che tentava di legare new wave, psichedelia e tradizione beatlesiana. Né sapevo che prima di Ocean Rain c’erano stati altri tre capolavori: il tagliente e aspro Crocodiles, l’affascinante e inquieto Heaven Up Here e lo spigoloso e ritmico Porcupine.
Non sapevo neanche che all’uscita di Ocean Rain la critica anglosassone (e quella italiana) praticamente unanime aveva gridato allo scandalo e aveva bollato il disco, di cui mi ero appena perdutamente innamorato, come un fallito tentativo, magniloquente e vanaglorioso, da parte di McCulloch e soci di affrancarsi dal movimento New Wave per entrare nel mondo del mainstream.
Non ero a conoscenza del fatto che con le partiture d’archi che comparivano per la prima volta nel loro sound, i Bunnymen volessero esaltare le melodie e, al contempo, rivestire la loro musica di una patina di languida tristezza. Neanche riuscivo a cogliere lo straordinario alternarsi tra brani più notturni e cupi e brani più solari e melodici. Non capivo neanche le parole delle canzoni.
Eppure.
Eppure fu amore. Immediato e travolgente. E, da allora, per la mia ribellione (solo estetica e culturale, ci mancherebbe: mai avuto il coraggio per andare oltre) fu una strada tutta in discesa. Sono state le note di The Killing Moon (una delle canzoni più perfette di sempre) e quelle pop di Seven Seas a farmi iniziare a comprendere quanto fosse poco importante fare parte del gregge, quanto l’anelito verso la bellezza, i sentimenti genuini e le manifestazioni artistiche (anche fini a se stesse, a volte) potessero riempire la vita standardizzata e monotona di un adolescente (naturalmente) brufoloso.
Ma, col tempo, ho imparato ad apprezzare ogni nota di quell’album (anche se continuavo, fino a pochi anni fa, a leggerne malissimo). L’abbagliante splendore notturno di Nocturnal Me, la pacata angoscia acustica di The Yo-Yo Man e la conclusiva title track che rappresenta l’apoteosi dell’album e la canzone che, a 14 anni, mi ha reso quel malinconico sentimentale che, spesso, ancora sono (dovrei odiare quella canzone, lo so, ma non ci riesco proprio): McCulloch, con un cantato dimesso e potente allo stesso tempo, tira fuori la propria anima, l’adagia a pelo d’acqua, tra gli abissi e gli astri, e lascia che le onde la cullino e la travolgano.
Addio fanciullino e benvenuto adolescente tormentato. (Laura mi baciò, a uno dei primi concerti che vedemmo insieme: lo fece per il puro gusto di stupirmi e sconvolgermi, senza sapere che ci era già riuscita, anni prima, grazie a una cassetta musicale).
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