Francesco Amoroso per TRISTE©
“A Horse, A Horse/My Kingdom For A Horse“. Mi bastarono queste poche parole (ispirate al “Riccardo III” di Shakespeare), cantate da una voce filtrata su sparse note di chitarra, perché, poco più di venti anni fa, rimanessi avvinto, per sempre, dalla musica di Mark Linkous.
Avevo appena finito la leva obbligatoria, un anno di vuoto totale, scandito solo da tante letture, qualche sopradica e fugace amicizia e gli auricolari che immettevano continuamente musica nella mia testa. Avevo assolutamente bisogno di ascoltare qualcosa di nuovo e avevo letto davvero bene dell’esordio degli Sparklehorse. Così, prima di partire per le vacanze non potei fare a meno di recarmi nel solito negozio romano per acquistare “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”, il “loro” album d’esordio.
E già nel breve viaggio che mi portava finalmente in vacanza, lontano dalle divise, dalla caserma, dalla branda con coperta e materasso degli anni 50 (e probabilmente lavati l’ultima volta poco dopo il loro confezionamento) mi innamorai di quella voce timida e gentile, dimessa eppure così piena di empatia.
La storia personale di Mark, adesso, è davvero inscindibile dalla sua musica. Non è facile riascoltare le note sommesse (e a tratti rabbiose) dell’esordio e dei successivi lavori di Linkous senza pensare quanto ogni singola parola, ogni singola nota, potesse rappresentare un presagio di quello che sarebbe accaduto. È inevitabile: ogni volta che un artista si toglie la vita è fatale che un’analisi della sua opera sia fatta col senno di poi, quasi che la stessa debba risolversi ed essere racchiusa solo in quell’ultimo e fatale gesto.
Sarebbe giusto e bello, invece, riuscire a richiamare le sensazioni provate allora (ignari di quanto sarebbe poi accaduto) e le riflessioni che l’ascolto di un album così fuori dall’ordinario e dalla struggente bellezza come “Vivadixie… (ecc.)” aveva suscitato in me.
Eppure non è facile visto che già la vivida (benché sbiadita) fotografia dell’iniziale “Homecoming Queen” non può che riportarci a quello che sembrerebbe, in fondo, essere il fil-rouge dell’album (che scoprirò, anni dopo, essere stato scritto in un momento, uno dei tanti, di estrema prostrazione fisica e mentale del suo autore): il lento ma inesorabile trascorrere del tempo, lo svanire dei ricordi, l’incombere della fine.
Tuttavia faremmo davvero un torto a Mark se dovessimo rileggere ogni sua canzone alla luce di quanto poi è accaduto, così mi imporrò di ricordare che allora questa canzone strappacuore suonava solo come una elegia ad una amore passato.
Certo a mia (e vostra) discolpa c’è anche da dire che Linkous non ci andava piano con i suoi continui riferimenti alla morte, se anche il secondo brano (sempre “contaminato” da Shakespeare, ma stavolta dal “Macbeth”) si apriva con queste parole: “The parasites will love you when you’re dead“. E potrei continuare citando “Spirit Ditch” (letteralmente “uno spazio vuoto nello spirito”), “Heart Of Darkness” (Mark era chiaramente uno che leggeva parecchio), “Hammering The Cramps” dove si cita addirittura il demonio (ma chiamandolo con il nome che gli viene attribuito all’inizio de “l’Esorcista”) e così via.
Ma dimenticherei e sminuirei altri aspetti fondamentali della poetica di Linkous e del suo immenso album d’esordio: innanzitutto gli straordinari affreschi gotici della provincia americana ( basti pensare alla poesia di “Cow” o all’epopea del disadattato di “Rainmaker”) e, poi, l’infinita dolcezza (e, per quanto banale, sarebbe difficile trovare un sostantivo più calzante) che pervade anche i momenti più bui dell’album.
Così, ogni volta che ritorno su questo lavoro, la cui musica si muove tra echi di Tom Waits (che pare sia stato un’influenza fondamentale per Linkous) e folk rock alla Neil Young, il tutto immerso in un suono al limite del lo-fi, eppure accuratissimo nei particolari e nelle atmosfere, mi piace pensare che il vero messaggio che Mark Linkous voleva trasmette (sempre che un messaggio volesse trasmetterlo davvero) agli ascoltatori di “Vivadixie…” era contenuto nel penultimo brano della scaletta: “Sad & Beautiful World”: “A volte divento così triste/A volte mi fai davvero arrabbiare/ È un mondo triste e bello/È un mondo triste e bello/A volte non voglio proseguire/A volte non so dire di no/È un mondo triste e bello/È un mondo triste e bello/A volte i giorni passano veloci/A volte questo sembra dover essere l’ultimo/È un mondo triste e bello“.
In fondo tra alti (ricordo ancora il bellissimo concerto tenuto dagli Sparklehorse all’ormai defunto Horus Club di Roma nel 2002, con un Linkous che sembrava in ottima forma) e bassi (troppi per ricordarli tutti), ci sono voluti quindici anni perché il dolore prendesse il sopravvento e il mondo per Mark divenisse troppo “sad” e troppo poco “beautiful” per poter essere ancora sopportabile. E, nel frattempo, il Nostro aveva anche intitolato un album (il suo terzo) “It’s A Wonderful Life” (e non voglio credere che fosse amaramente ironico).
Avremmo tutti preferito un altro epilogo, non c’è dubbio, ma mi piace pensare che Mark Linkous fosse, in fondo, un uomo che a modo proprio amava la vita.