Molly – All That Ever Could Have Been

molly

Francesco Amoroso per TRISTE©

A breve, completati gli ultimi incombenti lavorativi, me ne andrò in vacanza per un po’ di meritato (?) riposo e, come sempre più spesso mi accade da qualche tempo a questa parte, ho scelto di andare in montagna invece che al mare.
Andrò tra i ghiacciai alpini austriaci, alla ricerca di refrigerio e tranquillità, lontano dalla umanità unta e sudaticcia che affolla le spiagge agostane e dall’incessante, incalzante e volgare ritmo latino-americano che infesta gli altoparlanti degli stabilimenti balneari.

Proprio dalle Alpi austriache provengono Lars Andersson e Phillip Dornauer che, a giudicare dall’esordio del loro progetto Molly, dalle maestose vette che li circondano sono stati chiaramente influenzati.

Per arrivare a “All That Ever Could Have Been”, uscito da poco per la prestigiosissima Sonic Cathedral, il duo austriaco non ha preso alcuna scorciatoia, maturando lentamente e assimilando con calma e passione le proprie influenze, pubblicando alcuni singoli negli ultimi tre anni e crescendo, canzone dopo canzone.
Quei brani mostravano l’amore dei Molly per i suoni ambient, shoegaze ed elettronici, per il post-rock, i crescendo e la musica suonata con l’anima.

Se era (ed è) evidentissima, in ogni nota, la loro passione per i Sigur Rós e i Mogwai, per gli Slowdive e la modern classical di artisti come Dustin O’Halloran o le sperimentazioni di Stars Of The Lid, i Molly hanno, nell’album d’esordio, maturato un suono più personale e una scrittura sempre più incisiva, che, senza allontanarli dai propri riferimenti musicali, li affranca dalla loro pesante ombra.

Del resto che un debutto si apra con una suite di quindici minuti (nella quale è possibile ritrovare tutte le influenze citate e tanto altro ancora) è un chiaro sintomo di coraggio e ambizione.
“Coming of Age” è un vero e proprio viaggio nel suono di Molly con un lento crescendo iniziale, pianoforte e chitarre riverberate e l’arrivo della batteria a istillare tensione e pathos. Lo stesso si può dire della title track, dieci minuti di sonorità shoegaze e chitarre ipnotiche che impregnano le orecchie di atmosfere notturne e oscure e che avvincono l’ascoltatore attonito.

“Vogelnest”, uno dei brani più suggestivi e riusciti, ma anche una delle melodie più fragili ed esposte, ci porta a volo d’uccello sulle vette innevate, mentre “Weep, Gently Weep” è un sentimento che si fa musica, così come “As Years Go By” è una carezza ruvida e piena di sincero trasporto.

Tutto l’album si muove tra grazia e grandiosità, ma è quasi sempre la prima a prevalere (basterebbe ascoltare i soavi tre minuti e mezzo di “Slowly” per rendersene conto), così come all’enfasi viene sempre preferita una estatica sobrietà.

C’è bisogno di tranquillità, di tempo e della giusta predisposizione d’animo per assaporare quest’opera nella quale gli spazi, i vuoti, i silenzi suonano in maniera altrettanto incisiva delle note.
“All That Could Ever Been” è il suono della solitudine delle montagne, è il suono della purezza della natura, il suono degli animali del bosco che si risvegliano tra la neve, eppure è un lavoro profondamente umano e intriso di umanissimi sentimenti quali l’amore, la disperazione, il desiderio e la paura.
Ci sono il dolore del ricordo, l’aspirazione di trattenere qualcosa di effimero, l’acuto senso della perdita nelle note dei Molly e sarebbe atroce fermarsi alle loro chiare influenze senza lasciarsi travolgere dalla valanga del loro suono.

Tra un bagno e l’altro, tra una hit caraibica e l’ennesimo trapper tatuato, trovate un po’ di tempo per i Molly.
Io, dal canto mio, sono felice di aver trovato la colonna sonora perfetta per la mia imminente vacanza lontano dalla pazza folla.

 

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