Francesco Amoroso racconta il (suo) 2019

Il mio 2019

Francesco Amoroso per TRISTE©

Nel 2019 ho ascoltato, tra album e EP, circa 950 novità. Sono una goccia nel mare. La produzione musicale è oramai talmente sterminata che credere di poter stilare una classifica delle uscite più importanti dell’anno è davvero sintomo di grande presunzione.

E allora?

“Francamente me ne infischio” direbbe Clark Gable nei panni di Rhett Butler.
Sì, come al solito, se me ne infischio della Storia della Musica, figuriamoci della cronaca musicale dell’anno che si sta per concludere.

La musica, contrariamente a quanto vogliano farci credere, così come ogni altra disciplina artistica, non è una competizione sportiva.

Per me, sin dall’inizio, l’ascolto musicale è stato una passione viscerale e totalizzante, un’ancora di salvezza, una ragione di vita. Forse non l’approccio più corretto per chi dovrebbe mettersi su un piedistallo e ergersi a giudice del gusto o a censore dell’attitudine artistica, ma tant’è.
Scindere l’approccio emotivo e viscerale da quello analitico e interpretativo è un’attività che mi sembra oziosa e capziosa. La musica, come qualsiasi altra opera d’arte, ci parla attraverso più livelli e qualora ci si avvicinasse a essa solo a livello intellettuale, le si farebbe un grande torto. Se poi la confondesse con un qualsiasi concorso a premi, allora probabilmente sarebbe opportuno lasciar perdere e passare ad altro.

È per questi motivi che trovo assolutamente inutile e fuorviante stilare una classifica di valore degli album (che debba, per di più, tenere conto dell’anno di uscita delle opere, come se il 31 dicembre si dovesse chiudere l’esercizio contabile per poi riaprirne uno nuovo il giorno successivo).

Tuttavia, alla fine, ogni anno, più o meno puntuale, arriva il momento di chiudere comunque questi benedetti libri contabili e annunciare all’inclito pubblico quali sono gli album che devono essere assolutamente ascoltati per non rimanere indietro, per non finire calpesti e derisi nelle retrovie dello sfavillante mondo dell’attualità musicale.

E qui casca l’asino: se, fino a qualche anno fa (diciamo la fine del secolo scorso? L’inizio del nuovo millennio?) si poteva ancora con qualche credibilità parlare di scene musicali e l’unica divisione netta era tra la musica cosiddetta commerciale e quella “indipendente”, adesso non esistono più steccati di alcun genere e i fruitori di musica passano, senza apparente sforzo né incoerenza, dalla trap al folk, dall’elettronica al pop da classifica.

Al di là di qualsiasi giudizio circa la validità di tale approccio e di questa vera e propria rivoluzione epocale, è evidente che la nuova attitudine, sommata alla incredibile quantità di musica che viene prodotta ogni anno, di cui si parlava all’inizio, rende il giochino delle classifiche di fine anno del tutto obsoleto.

Quindi ci rinunciamo? Giammai! Ma, alla luce della doverosa premessa, restringerò grandemente l’ambito della mia indagine ai soli generi che seguo più o meno assiduamente.

Il 2019, nella mia piccola bolla, è stato, senza dubbio, ancora una volta, l’anno delle donne. Lo è stato sotto ogni aspetto, ma anche la musica (indipendente e non) ha visto il consolidarsi di una tendenza che si era già manifestata evidente nel corso degli ultimi anni: sono le donne, sempre più spesso, a essere l’avanguardia in ogni campo e quello musicale non è un’eccezione.

In ambito di musica d’autore (folk e non) l’andamento generale è ancora più evidente: le (canta)autrici  si sono oramai appropriate di un mondo che per anni è stato quasi esclusivamente ad appannaggio degli uomini e ne utilizzano gli stilemi, spesso innovandoli e contaminandoli, per portare avanti istanze imprescindibili e argomenti pressanti.

Mi sono dilungato abbastanza.
Quest’anno, per evitare di ripetere quanto già detto più volte, mi limiterò a segnalare le uscite che ho amato e di cui (molto colpevolmente) non siamo riusciti a occuparci su TRISTE©, limitandomi, negli altri casi, a elencare le uscite per me più meritevoli.

INNANZITUTTO:
1. 50 Dischi belli di cui vi abbiamo parlato su TRISTE© (in rigoroso ordine alfabetico).

Aldous Harding – Designer
American Football – American Football (LP3)
Andrew Bird – My Finest Work Yet
Angel Olsen – All Mirrors
Angelo De Augustine – Tomb
Bedouine – Bird Songs of a Killjoy
Belle and Sebastian – Days of the Bagnold Summer
Big Thief – U.F.O.F./ Two Hands
Bill Callahan – Shepherd In A Sheepskin Vest
Bon Iver – i, i
Cate Le Bon – Reward
Caught In The Wake Forever – Waypoints
Comet Gain – Fireraisers, Forever!
Curlicues – Private Life
Damien Jurado – In the Shape of a Storm
Dry Cleaning – Boundary Road Snacks and Drinks/ Sweet Princess EPs
Emily Fairlight – Mother of Gloom
Epic45 – Sun Memory
Fergus – Three Of Swords
Florist – Emily Alone
Fontaines D.C. – Dogrel
Hand Habits – placeholder
Hobby Club – Video Days EP
Iron & Wine and Calexico – Years To Burn
James Yorkston – The Route To The Harmonium
Josienne Clarke – In All Weather
Josin – In The Blank Space
Julia Jacklin – Crushing
Kele Goodwin – Moonbug
Leonard Cohen – Thanks for the Dance
Living Hour – Softer Faces
Massimo Volume – Il Nuotatore
Men I Trust – Oncle Jazz
Modern Nature – How To Live
Molly – All That Ever Could Have Been
Patrick Watson – Wave
Rozi Plain – What a Boost
Silent Forum – Everything Solved at Once
Studio Electrophonique – Buxton Palace Hotel
Tallies – Tallies
The Bv’s – Cartography
The Delines – The Imperial
The Murder Capital – When I Have Fears
The Proper Ornaments – 6 Lenins
The Slow Summits – Languid Belles Ep
Tiny Ruins – Olympic Girls
True Sleeper – Life Happened
Weyes Blood – Titanic Rising
Whitney – Forever Turned Around
William Doyle – Your Wilderness Revisited

+1: Dana Gavanski – Catch/One By One (son due singoli, ma non era possibile non segnalarli. chissà che il 2020 non sia il suo anno…).

2. 8 magnifici ritorni di cui avremmo voluto/dovuto parlarvi (ma di cui, in molti casi, hanno parlato comunque in tanti) (in nessun ordine particolare).

Cominciamo sempre dalle signore:

Jessica Pratt – Quiet Signs  Terzo lavoro dell’artista californiana, uscito a inizio anno e composto da nove brevi brani che, come segnali silenziosi ma potenti, riescono a catturare l’attenzione e a creare una connessione immediata tra la sensibilità dell’artista e quella dei suoi rapiti ascoltatori. Le canzoni si muovono incantate e incantevoli, lente e intorpidite, come un dolce risveglio al tramonto dopo un pomeridiano riposo ristoratore. Un album ammaliante.

Marika Hackman – Any Human Friend Che l’artista inglese abbia deciso di alzare la posta per il suo terzo lavoro sulla lunga distanza è immediatamente chiaro dalla irriverente copertina, sulla quale Marika è ritratta quasi nuda, in mutandoni e calzettoni, intenta a cullare un maialino. Any Human Friend è un lavoro coraggioso e sfacciato ancor più del suo predecessore. Marika ha deciso di esporre le proprie cicatrici emotive e scava nella propria intimità senza alcuna remora o tabù, esponendosi completamente, anche dal punto di vista sessuale. Un album pieno di ritmo, di riff di chitarra, di sintetizzatori eighties e ritornelli killer. Una prova di maturità, si potrebbe dire, senonché dubitiamo fortemente che Marika Hackman avesse bisogno di maturare: a 17 anni aveva già scritto “Bath Is Black”.

Simone White – Letter to the Last Generation  Uscito a sette anni di distanza dal precedente album e disponibile (per ora?) solo in digitale, Letter To The Last Generation  è, ancora una volta, un lavoro di semplicità disarmante e di grande immediatezza, caratterizzato, tuttavia, da arrangiamenti più sofisticati che in passato. La White si dimostra artista di grandissima maturità e le canzoni che compongono l’album, sono carezze dai contorni sfumati, sussurri pieni di grazia, riflessioni profonde eppure declinate in maniera eterea.

I Signori:

– Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen Già a poche ore dalla sua uscita, a parte i soliti trascurabili conformisti dell’anticonformismo, da ogni dove si è sollevato un peana per il diciassettesimo album di Nick Cave, struggente e luttuosa elegia di un artista straordinario e intensissimo. Ghosteen è un’opera che pretende un coinvolgimento totale dei sensi e della mente, non chiede che ci si soffermi sui suoni prevalentemente sintetizzati, sul falsetto di Cave, sull’influenza sempre più preponderante di Warren Ellis o sulla scelta di lasciare (quasi) del tutto fuori le chitarre (e la batteria). Andrè Malraux diceva che “solo la musica può parlare della morte” e Cave, con la sua musica, vuole solo condividere con noi il proprio dolore, le proprie riflessioni, le proprie speranze. Un dono. ma solo per coloro che sono pronti a riceverlo.

Bonnie ‘Prince’ Billy – I Made A Place Il nuovo album di Will Oldham (il primo di inediti dal 2011, nonostante l’incessante attività tra reinterpretazioni e collaborazioni) canta del vero amore, di occhi da calamari, di scatole di memoria e dell’utilità di una buona notte di sonno. E’ un lavoro scritto da un uomo maturo, in qualche caso quasi imborghesito, ma che non perde il proprio particolare punto di vista sulla vita e sui rapporti umani. Le 13 tracce che lo compongono sono quanto di meglio Will ha scritto da almeno dieci anni, quasi inaspettate nella loro freschezza, nell’eleganza dei loro arrangiamenti,  nella speranza che traspare dai loro testi. Una specie di rinascita per il Grazioso Principe del country folk.

Bob Corn – Songs On The Line A sette anni dal precedente album, Tiziano Sgarbi ci regala un lavoro composto da soli cinque brani semplici, essenziali e fuori dal tempo. La lentezza, l’ostinato rifiuto di essere attuale e la volontà di fermarsi a riflettere e ascoltare contraddistinguono ancora le sue composizioni e Tizio, oramai, con la sua barba bianca e arruffata, il sorriso timido e lo sguardo mite e sincero, è il più autorevole rappresentante di quella riserva indi(e)ana che è il country folk nostrano. I brani, sofferti e sereni, avvolgenti e riservati, scorrono lenti e sospesi, sul filo delle emozioni più semplici e necessarie, fino a sfociare nel minuto e mezzo della conclusiva “As The Sea As You See”, un haiku in musica, perfetto nelle sua scarna e abbagliante bellezza.

Le band:

Art of Fighting – Luna Low  Sono passati dodici anni dall’uscita di “Runaways”, il  quinto album degli australiani capitanati da Ollie Brown (anche collaboratore dei Sodastream). Luna Low, pur non abbandonando lo slow-core (in salsa australiana) degli splendidi lavori a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, è attuale nei suoni e nelle composizioni e, insieme alle dolcezze di brani come “Genie” e “The Digger And The Dragger” (cantata dalla bassista Peggy Frew), troviamo ballate elettriche come “Some Kinda World” e“Your Love”. Progresso all’insegna della continuità.

Tindersticks – No Treasure But Hope Dal 2008, dopo cinque anni di inopinata stasi, i Tindersticks di Stuart A. Staples, David Boulter e Neil Fraser, hanno continuato a sciorinare canzoni di grande eleganza e maturità artistica, dalla classe oscura e cinematica. No Treasure But Hope, tuttavia, mi sembra il lavoro più compiuto di questa seconda “vita” del sodalizio inglese, quantomeno quello più immediato e affascinante. Trascurate, ameno in parte, le sperimentazioni e gli intellettualismi, i dieci brani che compongono il lavoro “trasudano naturalezza e confidenza espressiva” (a dirla con l’amico Raffaello) e canzoni come “For The Beauty”, “Trees Fall” e la magnifica “Pinky In The Daylight” rivaleggiano in struggente bellezza con i capolavori del passato.

3. Dulcis In Fundo: 20 album (e 5 Ep) straordinari di cui vi hanno parlato in pochi. 

 Album:
Andrew Wasylyk – The Paralian
Nel 2017 Andrew Mitchell (che abbiamo anche visto da queste parti ad accompagnare alle tastiere Roddy Womble degli Idlewild nelle sue apparizioni italiane) mi aveva entusiasmato con il suo “Themes For Building And Spaces”. A distanza di due anni torna con The Paralian, lavoro di modern classical assolutamente eterodosso, con influenze folk, jazz, chamber pop, ambient e cinematografiche, concepito e realizzato utilizzando, oltre ai classici strumenti “rock”, arpa greca, flicorno, viola, violoncello, pianoforte, eufonio, tromboni, archi, fiati, oboe, sax, mellotron, fender rhodes, synth e percussioni. Un viaggio strumentale onirico e originalissimo.
PicaPica – Together & Apart Imperniato sulle sublimi armonie vocali di Samantha Whates e Josienne Clarke (toh, chi si rivede!) l’album d’esordio del progetto (il cui nome, in latino, significa letteralmente GazzaGazza) si caratterizza per una grande libertà stilistica e per l’eclettismo dei suoi membri che permette loro di spaziare tra i generi musicali e creare melodie e soluzioni armoniche eterogenee che passano attraverso coralità antiche e (retro)futuristico suono di synth vintage, archi pizzicati, corde di nylon accarezzate e chitarre elettriche spigolose, ma anche bassi profondi e ritmiche a tratti frenetiche. Graffianti e carezzevoli al tempo stesso le canzoni di PicaPica sono quanto di più originale (eppure orecchiabile) mi è capitato di ascoltare in questo anno.
 – Vanishing Twin – The Age Of Immunology La psichedelia dei Vanishing Twin (band capitanata dalla belga/inglese Cathy Lucas e che comprende membri provenienti da tutto il mondo) è di quelle che amo di più: surreale e nostalgica, inquietante e melodica, influenzata dal Kraut Rock così come dalla Bossa Nova.  “The Age of Immunology” è un pastiche di suoni del passato che suonano attuali, anzi futuristici. La splendida voce, elegante e laconica, di Cathy ricama canzoni straordinarie come “Magician’s Success” e “You’re Not An Island” (forse uno dei brani più belli dell’anno), ma anche gli altri membri collaborano prestando le loro voci e le loro grandi capacità strumentali. Un album che accontenta tutti, appassionati della sperimentazione e della musica intellettuale e fanatici della melodia.
Capitol – Dream Noise Si chiamavano Uk Cinema e il loro primo singolo, dello scorso anno, mi era tanto piaciuto. Ora questi canadesi hanno cambiato nome in Capitol e hanno esordito con un album “terribilmente derivativo”. Sì, Dream Noise è un lavoro che prende a piene mani da Joy Division, The Cure, Slowdive e Interpol, eppure è un disco bellissimo: forse sarà merito del fascino imperituro di certe chitarre shoegaze, del basso alla Peter Hook, o della voce distaccata e profonda del cantante, oppure, più semplicemente, perché Dream Noise è pieno, zeppo, di brani straordinari, quali “Saint of Nothing”, “Never Been to Paris”, “Blondie”, “In Ceremony” e l’anthemica “Queenstown”. Sarà anche una sorta di guilty pleasure, ma se amate certi suoni non potete farvi sfuggire questo esordio.
Kit Sebastian – Mantra Moderne Ho ascoltato i Kit Sebastian per caso, spinto dall’assonanza del loro nome con quello dei… Belle And Sebastian! Sono in due: l’inglese Kit Martin (che ha composto tutte le canzoni e suonato tutti gli strumenti) e l’artista multidisciplinare e vocalist turca, ma residente in Francia, Merve Erdem (che ha scritto tutti i testi).  E’ cantato in tre lingue (inglese, francese e turco) ma i temi che tratta sono universali: amore, perdita, sconfitta, linguaggio e ideologia. I Kit Sebastian attingono a piene mani dal folk anatolico (!), dalla chanson francese degli anni sessanta e dalla tropicalia brasiliana, forgiando una sorta di psychedelia pop retrofuturista. Kit e Merve scrivono canzoni  bellissime e senza età (e pure senza confini). Un debutto incredibile.
Skiftande Enheter – Snubblar Genom Drömmar Gli svedesi “Dispositivi Diversi” hanno scritto un album brevissimo e magico e l’hanno titolato “Inciampando Attraverso I Sogni”. Se non basta questo per incuriosirvi, basterà dire che ci sono canzoni, come la title track, che suonano come se i Felt avessero fatto una versione svedese del loro “Forever Breathes The Lonely World”. In altri casi, invece, sembra di ascoltare i Velvet in versione garage rock (“Min Hand I Din” (La mia mano nella tua)). Gli organi e le chitarre jangly la fanno da padrone lungo tutto il lavoro rendendo evidente che la band dell’eclettico e prolifico JJ Ulius, di Göteborg, che faceva garage punk, sembra essersi all’improvviso innamorata dei Felt e della new wave. Per nostra fortuna, direi.
Kate Davis – Trophy Il nome di Kate Davis potrebbe suonare nuovo a tutti, eppure la musicista dell’Oregon ha suonato nella Portland Youth Philharmonic, ha studiato contrabbasso alla Manhattan School Of Music, era considerata un astro nascente del jazz, ha aperto concerti importanti e la sua cover di All About That Bass di Meghan Trainor ha avuto su youtube otto milioni di visualizzazioni. Prima di esordire con Trophy, poi, si è presa il lusso di scrivere con Sharon Van Etten “Seventeen”, il miglior brano dell’ultimo lavoro dell’artista americana (e uno dei migliori dell’anno). I dodici brani del suo album “indie” d’esordio, invece, vedono come protagonista assoluta la chitarra elettrica e si muovono in ambito indie rock classico. La voce della Davis è così eclettica da risultare completamente diversa da quella ascoltata nelle sue performance jazz, ma non per questo, meno educata o emozionante. Trophy parla di adolescenza con accenti poetici e umoristici, con un songwriting personalissimo e maturo, con un incredibile gusto per la melodia e una struttura dei brani di accuratissima e disarmante semplicità. Daisy, I Like MyselfCloud, Open Heart, Rbbts, sono canzoni perfette per la radio e per la riflessione. Incredibile che se ne siano accorti in pochi.
Lucy Roleff – Left Open in a Room A tre anni dall’esordio, l’australiana Lucy Roleff torna con la sua splendida voce e la sua sensibilità, con il suo folk ridotto all’osso, con il suo caldo intimismo, con le sue canzoni austere e profonde. Più elaborato negli arrangiamenti del suo predecessore, Left Open In A Room, è un lavoro incantevole e ammaliante, scritto e suonato sulla chitarra acustica e sull’arpa celtica, ma arricchito da fiati e rarefatta strumentazione elettronica. Mai la voce carezzevole e calda dell’artista di Melbourne era stata così efficace e preziosa.
Yohuna – Mirroring Che si tratti di cantautorato spurio, di musica da cameretta o di dream pop davvero conta pochissimo: Mirroring, il secondo album di Johanne Swanson (il primo era uscito nel 2016 per Orchid Tapes), in arte Yohuna, è un capolavoro di eterea leggerezza, di canzoni cantate con la testa tra le nuvole, di magnifici arrangiamenti elettronici al servizio di una voce aerea e di melodie sghembe eppure efficacissime. Rain And Priarie Snow, See Me, Fades To Blue sono brevi sogni ad occhi aperti, cullanti e inquietanti al contempo.
Maija Sofia – Bath Time E, proprio quando avevo già deciso che questo era l’anno delle donne ma che di donne ne avevo già ascoltate abbastanza, è arrivato l’album che ha scompigliato tutto. Bath Time, il debutto dell’irlandese Maija Sofia, incentrato sulle storie di donne bistrattate, silenziose o dimenticate dalla storia, è costruito sulla voce soffice, ferma e vagamente inquietante di Maija e sui suoi testi lirici e potenti. Da “The Wife of Michael Cleary” (che, grazie al contributo di Ronan Kealy, è affascinante quanto una murder ballad di Nick Cave in cui la più dolce delle melodie nasconde qualcosa di molto sinistro), a “Edie Sedgwick”, dalla coraggiosa “Hail Mary” a “The Glitter”, le melodie di chitarra elettrica della Sofia graffiano e feriscono, portano brividi e lacrime, corroborate da un poderoso  violoncello, dai synth e da una dolente lap steel. “Bath Time” è un debutto così compiuto, maturo e personale, che ha un posto assicurato nell’olimpo, tutto al femminile, delle migliori uscite dell’anno appena trascorso.
Daniel Martin Moore – Never Look Away I
l nono album di Daniel Martin Moore sarebbe potuto entrare nella “sezione” precedente, se non fosse che praticamente nessuno se ne è occupato. E’ stano che un artista che incideva per la Sub Pop, che ha avuto un buon riscontro di critica, oltre che un notevole seguito di pubblico, possa cadere nel dimenticatoio così in fretta. Eppure “Never Look Away”, nella sua estrema semplicità, è un lavoro pressoché perfetto. Un disco folk, schietto, sentito e pieno di canzoni magiche e  meravigliose. La chitarra o il piano accompagnano la voce delicata, sincera e amichevole di Daniel e flauti, clarinetti, sassofoni, violini e violoncelli le regalano colore e profondità. Chi riesce a scrivere una canzone di pura e straordinaria bellezza come “Real Love Song” non dovrebbe mai essere dimenticato.
Jeanines – Jeanines I Jeanines sono un duo composto da Alicia Jeanine (nata Hyman) e Jebediah Smith (che con la sua altra band, Mick Trouble, ha inciso un altro album assolutamente imperdibile quest’anno: Here’s The Mick Trouble LP) la cui offerta musicale è malinconicamente nostalgica eppure viva, pulsante e diretta. Il loro indie pop di chiara matrice C86, ha certe asperità punk e lo fi che, seppur celate dietro magnifiche chitarre jingle-jangle e addolcite dalla voce di Alicia, così spontanea e coinvolgente da suonare perfetta, bilanciano al meglio il tono zuccherino dell’album. “Jeanines” è un lavoro di pura emozione, melodico dalla prima all’ultima traccia (ben sedici e solo una supera i due minuti e mezzo!) ed emozionante, senza essere mai melenso o scontato.
Kiwi jr – Football Money  I canadesi Kiwi Jr hanno esordito con una raccolta di canzoni davvero entusiasmante, a cavallo tra power pop e sonorità indie anni ottanta (con una robusta spruzzata di slacker anni 90 a rendere il tutto più frizzante). La voce di Jeremy Gaudet suona un po’ come se a Stephen Malkmus fosse davvero importato qualcosa. Tra chitarre cristalline e ritornelli dalla presa immediata, le canzoni dei Kiwi jr raccontano storie di quotidianità, condita con deliziosi sprazzi surreali. E’ difficilissimo togliersi dalla testa canzoni quali “Swimming Pool” o la magnifica “Comeback Baby”.
Sambassadeur – Survival Arriva a ben nove anni dall’ultimo album (European) il nuovo lavoro degli amabili svedesi: dolcissime melodie, delicatissimi arrangiamenti di archi e la carezzevole voce di Anna Persson a titillare la nostra malinconia, Survival è un nuovo esempio di quella poetica delle piccole cose cui gli svedesi ci avevano abituato. Indiepop semplice, sentimentale, caldo e immensamente emozionante. Suoni, voci e melodie sempre in perfetto equilibrio, senza strafare, ci regalano canzoni come “41”, “Foot Of Afrikka”, “The Fall” o “Roads” che, nel loro understatement, riescono a sedurre e a scaldarci l’anima e il cuore (peccato solo che l’album sia inopinatamente disponibile solo in digitale).
Softy – Presenting…The Patch Un album bellissimo. Canzoni che ricordano da vicino (da vicinissimo…) i migliori Belle And Sebastian, quelli più orchestrali e malinconici. Potrei limitarmi a dire questo, anche visto che non esistono in rete altre informazioni e che l’album è disponibile solo in digitale. Ma di fronte a tanta magnificenza (provate ad ascoltare la splendida Tuning: una sublime carezza) non potevo arrendermi e così ho contattato l’autore del lavoro. La sua risposta è stata concisa ma gentilissima: “Softy is a solo project. All the songs were written by myself! The band members are all music students from my University, I gave them the parts to play. I recorded the album at my music school’s auditorium with the help of my friend and fellow artist, Voidhood. He also mixed and mastered the whole project“. (Vi ricorda qualcosa?) Questo australiano (che non si firma…) di Melbourne, che studia alla prestigiosa Monash University, è riuscito a scrivere un album che sfiora la perfezione chamber pop, tra melodie delicatissime e arrangiamenti cameristici. Sono solo sette brani (con, in due casi, una coda orchestrale), ma bastano (per ora…) per farmi perdutamente innamorare del mondo e delle sonorità di Softy.
Fionn Regan – Cala Ho seguito la carriera dell’artista irlandese con attenzione discontinua, eppure questo album, cupo e sincero sin dall’immagine di copertina, mi ha conquistato. La sua semplicità e la sua sobrietà, le melodie serene, i meravigliosi arrangiamenti (“Collar of Fur” e “Glaciers”,  con il suono intimo della chitarra e le sparse, eteree note di piano) restituiscono in pieno il grande talento di Regan. I testi poetici raccontano le coste dell’Irlanda con immagini romantiche ed evocative e la voce di Fionn non è mai stata così aerea e morbida. Cala è un disco che riesce, a momenti, a raggiungere livelli assoluti di bellezza e fragilità emotiva.
Oliver Cherer – I Feel Nothing Most Days L’iperprolifico artista di Hastings (anche con gli alias Gilroy Mere e Dollboy) ha riscoperto, a 35 anni di distanza, la propria scatola di nastri e demo e, ritrovandosi tra le mani la chitarra che Vini Reilly dei The Durutti Column usò nel primo album solista di Morrissey, “Viva Hate”, ha ripreso dieci abbozzi adolescenziali portandoli a completamento. Basterebbe questa storia per amare “I Feel Nothing Most Days”, ma i richiami a Robert Wyatt, al primo Ben Watt, ai Cocteau Twins e ai tardi Talk Talk fanno il resto. In questa incantevole capsula del tempo ci sono canzoni carezzevoli e immerse in nebbie sognanti, richiami poetici e malinconia, romanticismo senza speranza, una voce sommessa e serici assoli di sassofono. Un disco di languida nostalgia che non indulge nel rimpianto.
From A Distance – Home Miniatures #1 Non ho mai inserito album usciti per la nostra minuscola etichetta nelle mie classifiche di fine anno, ma in questo caso devo fare un’eccezione perché Home Miniatures #1 è un lavoro al quale sono troppo legato e perché non ci siamo impegnati abbastanza a diffondere la sua musica elaborata ed emozionante. A due anni e mezzo dal magnifico debutto, From A Distance torna con nove brani, minimali e domestici, registrati con pochi mezzi ma carichi di sentimento e nostalgia. Arricchiti dal violoncello, da un piano wurlitzer e dal ritorno della splendida voce di Lou Richards (in “Behind The Hill” e nell’epilogo) i brani di From A Distance sembrano, appunto, arrivare da un tempo e un luogo lontani, eppure sono così vicini al cuore da poterne, ogni volta, sentire il calore.
Olov Antonsson – Vagabondhjärta Evidentemente lo svedese (che pure non capisco affatto) esercita su di me un grande fascino se Vagabondhjärta è il secondo lavoro cantato in questa lingua che inserisco qui. Olov Antonsson si faceva chiamare Cocoanut Groove e nel 2008 aveva fatto uscire “Madeline Street” un favoloso album di chamber pop completamente immerso nella nostalgia sixties. Dopo un nuovo lavoro a distanza di 6 anni, Olov ha deciso di passare allo svedese e di abbandonare il vecchio alias. Già l’album del 2016, “Nere och ute i AC län”, tutto incentrato sulla sua città, Umeå, e sulla regione del Västerbottens (da dove viene un formaggio buonissimo), aveva mostrato maggiori aperture sonore. Cuore Vagabondo (questo il significato del titolo) continua su questa strada, affiancando all’ispirazione sixties, melodie efficacissime e arrangiamenti d’archi sopraffini. E’ malinconico, senza autocommiserazione e (a quanto pare) anche sarcastico a tratti. Un lavoro pieno di belle canzoni i cui testi, tuttavia, mi piacerebbe tanto comprendere meglio.
Vetchinsky Settings – Underneath The Stars, Still Waiting. Ho sempre adorato gli Orchids e lo stesso posso dire di The Montgolfier Brothers, quindi l’esordio del progetto  Vetchinsky Settings è una sorta di sogno a occhi aperti per me. James Hackett degli Orchids e Mark Tranmer dei Montgolfier Borthers (e Gnac) hanno dato vita a un album magnifico che prende ispirazione a piene mani dai lavori delle rispettive band, regalando ballate languide e passaggi pianistici sognanti e malinconici, frizzanti e ispirate melodie pop e arrangiamenti misurati e raffinatissimi. Il disco, costellato di dialoghi ripresi da film e televisione e scritto in modo squisito, è diviso in quattro parti: “Nascita”, “Amore”, “Lutto” e “Morte”. E’ un concept album, ma non risulta affatto pesante. Le canzoni sono così straordinariamente compiute anche prese singolarmente che l’idea dietro l’album può anche essere ignorata (e, tuttavia, ne rimane parte integrante e fondamentale). Una visione della vita nostalgica che non vuole essere consolatoria né cinica. Come la vita, in effetti. Un disco perfetto per chiudere il 2019.  

EP:
Fell – For the Pickling EP Il musicista di Blackpool Nicolas Burrows scrive deliziose caramelline pop pischedeliche, nella vena dei Beatles più stravaganti e nostalgici. Questo e.p. di cinque brani (disponibile solo su cassetta), a nome del suo progetto Fell, è pieno di melodie meravigliosamente solari e immediate, con voci stratificate e sonorità vagamente ipnotiche. La title track è una vera delizia.
Jay Sunaway – Sparrowfeather Joe Woods e i suoi Jay Sunaway coniugano, nelle tre piccole gemme contenute in questo e.p., un approccio esplicitamente folk pop con un pizzico di jazz e degli arrangiamenti molto raffinati. Il suono della band è basato su eleganti linee di chitarra acustica e su ritmiche rigogliose, ma lo sviluppo armonico delle canzoni è spesso imprevedibile e sempre convincente. “Rocks” è la canzone indie folk dell’anno.
Flora Hibberd – The Absentee La cantautrice inglese (ma residente a Parigi) Flora Hibberd ha pubblicato finalmente il suo debutto, “The Absentee”, un EP di quattro brani,  oscuri,  sinceri e di grande impatto. La sua straordinaria voce e il suo approccio alla materia folk assolutamente personale, potente e ricco di sfumature, doloroso e drammatico, rendono le quattro canzoni dell’ep profondamente emozionanti e coinvolgenti. La title track e la lunga e lussureggiante “In Violence” sono opera di un’artista dall’immenso talento.
Villagers – The Sunday Walker EP Che “The Art Of Pretending To Swim” dello scorso anno fosse un gran ritorno alla forma ce ne eravamo accorti, ma questo ep, uscito a distanza di un anno da quel lavoro e composto interamente da canzoni registrate allora e non incluse nell’album, riporta Conor O’Brien e il suo progetto Villagers dove dovrebbe stare: nell’olimpo dei migliori songwriter irlandesi di sempre. Le quattro tracce che O’Brien definisce “canzoni della perdita e canzoni della realizzazione. Canti di empatia e isolamento” sono di quanto più sincero e emozionante l’artista abbia scritto negli ultimi anni. “Adora Venera” è una piccola canzone perfetta di immensa raffinatezza ed eleganza.
Ducks Unlimited – Get Bleak (EP) Il jangle-pop dei canadesi Ducks Unlimited, ispirato alla Sarah Records dei Field Mice, alla Postcard, alla scena C86 e alla Flying Nun (tanto da sembrare a tratti provenire da una band neozelandese) è fatto di canzoni incalzanti e immediate, spesso allegre e con una sottile vena poetica. Date queste premesse impossibile non innamorarsi perdutamente del loro ep d’esordio. 

Vi segnalerei anche la cantautrice scozzese Heir of the Cursed, autrice della canzone più bella dell’anno (Hold The Mirror), ma né il brano, né l’e.p. che avrebbe dovuto seguirlo sono al momento reperibili. Sono certo, però, che ne sentiremo parlare.

Alla prossima.

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