Moonchild – Little Ghost

Moonchild

Carlotta Corsi per TRISTE©

Gli amici me lo hanno sempre detto: ho troppa fretta. E hanno ragione: nella vita, spesso, agisco d’istinto lasciando le conseguenze in coda. Crescendo, però, arrivi a un punto di snodo in cui capisci che è ora di cambiare e, forse, ragionare qualche secondo di più sulle situazioni porta comunque alla realizzazione delle stesse, ma nel momento e modo giusto.

Ecco, io non ho mai saputo che vuol dire sta roba, quindi ora giuro mi do una mossa perché sarei impaziente di scoprirlo!

Fare sbagli, grandi e piccoli, e fermarsi per rivedere le proprie scelte è l’inizio per costruire davvero qualcosa (poi oh, così è quel che mi han detto eh).
Mossa quindi ancora da qualche dubbio, decido di sedermi e disegnare su un foglio un piccolo business plan sulle poche somme che ho già racimolato nella vita, in modo da tagliare e cucire dove serve. Mentre ci ragiono metto su “Little Ghost” il nuovo lavoro dei Moonchild.

La band losangelina di tenacia e duro lavoro ne sa qualcosa: dopo un intenso periodo di touring tra Nord America, Asia ed Europa, come band di apertura di The Internet e Kamasi Washington, ha voluto ritagliarsi del tempo per concentrarsi sull’album, scritto tra il lago Arrowhead e appunto, LA, cercando di lavorare assieme per raggiungere l’idea di un suono comune, altrimenti complicato da articolare in parole.

Ogni brano riflette molto l’influenza dei The internet, armonizzando perfettamente questo stile alternativamente R&B e molto jazzy, quello della nuova scuola insomma, un po’ soul e un po’ elettronico, ma poco poco, il giusto, che serve a farti muovere la testa compiaciuto mentre tiri giù un mood board stile pinterest.
Amber Navran, Max Bryk, and Andris Mattson sono i tre membri e polistrumentisti che esplorano tra lyrics un po’ intimiste e suoni molto classy e devo dirlo, rilassanti.  Insomma te la fanno prendere bene.

C’è da dire che, nonostante l’ascolto piacevolissimo, le canzoni, mano a mano che scorrono, tendono ad assomigliarsi un poco l’una e l’altra, forse proprio perché il concept è davvero molto denso e ben pensato.
La voce di Amber è avvolgente e si fatica a un primo ascolto a crederla caucasica: tutto l’album è una traversata di suoni ed armonie pulite e incasellate molto bene e, la sperimentazione di alcuni particolari strumenti a fiato crea davvero quella sensazione di scoperta mistica tipica della California.

Insomma un lavoro ben studiato e davvero ben eseguito.
I Moonchild sono musicisti che possono permettersi un disco “semplice” ma che, sostanzialmente, semplice non è, ma anzi contiene davvero un bel mondo, pregno di dedizione, duro lavoro e grande armonia tra i tre.
Hanno saputo immagazzinare tutto quel che di buono il periodo in tour gli ha portato, sfruttando poi lo spazio che ne rimaneva nel modo migliore, senza rendere mai conto a quella cosa che noi chiamiamo tempo, ma che in realtà è davvero relativa.

Senza spostare troppe teorie, ipotesi e concetti di cronostasi ora, gustatevi questo disco in serenità, che io devo finire sto plan che sennò mi scade.

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