Francesco Giordani per TRISTE©
Vorrei scrivere qualcosa sul tempo. Già, il tempo.
Ovvero quella sostanza indefinita ma tangibile che, parrebbe, questa tragica epidemia ci dona e ci ruba in pari misura.
Mai abbiamo avuto così tanto tempo a disposizione, mai abbiamo avuto così poche cose da fare per riempirlo, in apparenza.
In questi giorni poveri di tutto ma in compenso, come già notato su queste pagine, ricchissimi di tempo, ebbene, in questi giorni spesso vuoti, ripetitivi e assai difficili da “impegnare” in un qualcosa di minimamente sensato che non sia il mangiare o il dormire, assistiamo ad un’inflazione temporale che forse prelude ad una bancarotta: il tempo si moltiplica ma moltiplicandosi si svaluta e svalutandosi si annulla.
Non passa più.
Eppure, se il corpo è imprigionato in vestaglie, tute, letti non rifatti, divani più o meno scomodi e spettrali cortili simil-carcerari per un’oretta d’aria, in questa nuova dimensione generalizzata di reclusione cameristica, quasi cartesiana, che le nostre esistenze hanno assunto per forza di legge, la mente può tuttavia continuare a sperimentare felicemente i suoi fantasiosi stratagemmi di evasione.
A scriverlo è un’indole distratta, disordinata, tendente alla divagazione oziosa, nonché potenzialmente attratta da tutto (ma principalmente da ciò che è o appare irrilevante), che ha fatto dell’”ammazzare” il tempo, dell’investirlo in attività volatili, a “fondo perduto”, se non un mestiere redditizio, di sicuro una solidissima ragione di vita.
La lettura di quei libri che da mesi languono ignorati sul nostro comodino come pesciolini boccheggianti (nel caso di chi scrive queste righe la monumentale pluripremiata biografia wittgensteiniana del professor Ray Monk o le quantomeno doverose Correzioni di Jonathan Franzen, miserabilmente ferme ad un terzo dello loro lunghezza) come anche l’ascolto di dischi “nuovi” – che, è bene ricordarlo, continuano ad “uscire” e accumularsi nella libreria di Spotify in gran copia -, in questo senso, costituiscono attività che possono venirci in utile soccorso.
Restando nel prediletto Regno Unito, per non parlare del solito (ma eccellente) Morrissey, mi piace segnalare il sopraffino side-project “yacht rock” dei Vaccines a nome Halloweens, perfetto da godere in cuffia mentre si sciacquano stoviglie o si lucidano, strofinaccio alla mano, bicchieri e cristalli di immaginari conviti in Costa Azzurra. Segnalo pure il debutto, molto roxy-rundgreniano, di James Righton, già voce dei Klaxons e oggi felice marito di Keira Knightley che, con l’aiuto di James Ford e Soulwax, regala in The Performer un ottimo accompagnamento sonoro per lavatrici di altrettanto immaginari smoking da gran gala hollywoodiano. Come tacere poi del delizioso mini La Vita Nuova della francese Christine and Queens, immancabile e fedelissimo compagna di maldestre parodie di flessioni e plank in soggiorno.
Raccomando soprattutto, visto anche che ben poco troverete da leggere a riguardo, il bell’esordio di Dan Lyons, SubSuburbia, che proprio grazie ai suggerimenti algoritmici di Spotify ho scoperto, vagabondando a caso di similitudine in similitudine per ingannare il tempo.
Questo curioso menestrello del Kent, formatosi sotto l’ala protettiva dei Fat White Familiy e artefice di un “quaintessential surrealist anglo-pop” (se state iniziando a pensare a Syd Barrett, Robyn Hitchcock, XTC, Julian Cope o Gruff Rhys non siete poi tanto lontani dal vero…), sciorina nelle sue tredici splendide canzonette un credibile catalogo di umori e invenzioni psych-pop degni della massima attenzione, “holding a mirror to the very best and the absolute worst of British people, places and things.”, come si legge nella nota stampa Rough Trade.
Un po’ Badly Drawn Boy un po’ Pete Doherty sotto valium, Lyons impone la sua firma in brani di seducente immaginazione psichedelica (Easy Aperture, che piacerebbe a Kevin Ayers, ma anche Biarritz, Frank, Change the Words o Rohypnol, nomen omen come dire..) che, vista la situazione in cui siamo immersi, suonano sinistramente opportuni, quasi oracolari, nel loro abilissimo rimescolare il tempo della veglia e quello del sogno.
Già, il tempo. Avevo dichiarato all’inizio di questo scritto di voler parlare del tempo. Non credo di averlo fatto davvero. Ammetto tuttavia, con un filo di orgoglio, che riuscire a farvene passare piacevolmente un pezzettino sarebbe già tanto.
Per questo vi dico: concedete una chance anche a Dan Lyons.