Kamaal Williams – Wu Hen

Carlotta Corsi per TRISTE©

Chi non ascolta musica jazz, spesso dice che per rilassarsi preferisce qualcosa di meno “classico e complicato”.

Tendenzialmente quando qualcuno me ne parla, chiedo sempre da quando vivere in un mondo che richiede analisi sia diventato obsoleto e, soprattutto, dove sta scritto che la musica si riduca al banale scopo di alleviare il peso dei pensieri.
Forse m’innervosisce questo approccio superficiale o, forse, credo ancora ingenuamente che le settime possano rendere il mondo un posto migliore.
Perché una cosa che non viene capita non dovrebbe essere ascoltata? Dove sta il nesso? Non è nella scoperta la sua intrinseca bellezza?

Cosa può rendere emozionante Il mondo se non il viaggio, quello che nessuno può conoscere e comprendere se non solo dopo averlo esperito.
Sarebbe l’atto più democratico di tutti riuscire a comprendere senza il bisogno di conoscere, ma capisco faccia sempre una gran paura.

Ed è quello che capita quando ascolti un disco come Wu Hen di Kamaal Williams, secondo ed ultimo disco del musicista britannico.
E’ uscito il 14 Agosto e io, come sempre, sono in treno.
In realtà mi sto abituando a questa cosa dei viaggi programmati e dei dischi da ascoltare -forse troppo – mentre guardo il tramonto e l’estate finire.
Benché abbia sempre preferito l’alba e le stagioni fredde, questo disco si colloca perfettamente in questo spazio temporale di fine agosto, di fine estate, di ritorni a casa e di amari in bocca.

È un disco ben lavorato ma nonostante tutto mantiene quel tattoo smooth tipico del genere. L’aria acida non manca e il groove nonostante non sia figlio di Dayes è molto accattivante. Dietro la maggior parte dei pezzi troviamo l’influenza di Miguel Atwood-Ferguson e chi sa di chi sto parlando sa di chi parlo, quando nomino alcune delle sue collaborazioni.

Toulouse e Hold On sono i pezzi che mi rapiscono al primo ascolto e se nel primo t’immagini perfettamente un quadro Lautrechiano, in Hold On è inevitabile portare a galla momenti intensi.
One More Time, non so perché, è per me qualcosa di estremamente inglese, è la classe innata di questi artisti d’oltremanica che non riesci mai a cogliere né a spiegare ma che si nota decisamente nelle note che suonano.

Insomma questo disco è tutt’altro che classico e complicato… oddio, magari complicato sì, perché, dai, bisogna essere comunque un po’ Williams per fare ciò e, almeno che sappia io, un Williams non nasce proprio tutti i giorni.
Però… ecco, indubbiamente, è un disco-invito a chi vuole anche un po’ divertirsi e stupirsi di qualcosa di nuovo e che fondamentalmente spesso pare solo una bella conversazione. Durante il periodo di Yussef Kamaal, l’artista ha rivelato che molti passaggi dell’album “Black Focus” (2016) furono improvvisate in studio, sottolineando l’importanza del dialogo musicale tra i musicisti nella strutturazione delle esibizioni.
E anche qui è tutto sempre ben calibrato in queste composizioni che, appunto, poi devono somigliare quasi a una connessione molto speciale tra parole.

Io sono tornata a casa e ho cercato di riprendere il ritmo, di non abbandonare il groove estivo, ma l’estate sta comunque passando e su questo poco ci possiamo fare.
Di certo c’è che il jazz riesce sempre a insegnarmi qualcosa e anche se ci sono momenti amari, d’incomprensione e pieni di delusioni, se riesco a cogliere ancora il bello delle cose sono già a buon punto.

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