Francesco Giordani per TRISTE©
Penso di non essere stato il solo ad avvertire, in questi anni, l’esigenza di un studio serio e criticamente soddisfacente dell’opera di Flavio Giurato, che, più che collocarlo all’interno di un canone ufficiale o di un’ipotetica storia della canzone italiana, ne riportasse in piena luce l’originalità, la grandezza e la profondissima libertà. Quel libro, lungamente vagheggiato, ora esiste davvero, si chiama Flavio Giurato. Le Gocce di Sudore più Duro e porta la firma di Giuliano Ciao. Un’opera densa, piacevolmente “smisurata”, frutto di anni di lavoro, che si distingue dal brusio della contemporanea pubblicistica di argomento musicale non solo per il formidabile livello di ricerca e approfondimento critico propugnato dall’autore, ma anche e soprattutto per la raffinatezza stilistica della sua scrittura.
Considerata l’inafferrabilità oserei dire quasi “ontologica” di Giurato – un artista che, come noto, ha fatto dell’elusione e della sottrazione alla visibilità un destino prima ancora che una poetica – Ciao non poteva certo accontentarsi di scrivere una biografia convenzionale. Il suo testo dunque, quasi a replicare una gestualità tipicamente giuratiana, eccede le regole codificate del tradizionale ritratto biografico e, al riparo da monumentalizzazioni agiografiche o tentativi di “sistemazione” accademica, letteralmente “impazzisce”, si perde e disperde in una fuga rizomatica di percorsi all’interno della vita e dell’opera di Giurato, lasciando risuonare le voci di chi Giurato l’ha incontrato, affiancato, aiutato o anche solo semplicemente amato. Sino ad incorporare, inevitabilmente, la voce di Giurato stesso, in carne, spirito e, appunto, sudore.
Per tutti questi motivi ho voluto farmi raccontare Le Gocce di Sudore più Duro direttamente dall’autore. Ecco che cosa ci siamo detti.
Parto dalla domanda forse più ovvia. Perché scrivere un libro su Flavio Giurato oggi?
Non ho alcuna idea di quali siano i motivi per cui fosse necessario scrivere questo libro, e per cui fosse necessario farlo oggi, intendo necessario per qualcun altro che non sia io. Non mi sono mai posto il problema se ci fosse un pubblico che sentiva la mancanza di un libro di questo tipo, un gruppo di appassionati giuratiani che aveva la voglia di sfogliare un volume che raccontasse le gesta del loro eroe, oppure se fosse venuto il momento di riempire un evidente vuoto critico riguardo un gigante della nostra musica d’autore. Potrei raccontare invece – ma non sarebbe interessante – di quanto avessi io la necessità di scrivere questo libro, di quanto avessi bisogno di gettare luce sul legame che mi univa a questo artista, di capire come mai le sue canzoni e la sua vicenda mi appartenessero così profondamente. Per il resto, non credo ci siano motivi contingenti o legati all’attualità che rendano urgente frequentare un artista come Flavio, credo piuttosto che un artista come lui sia sempre attuale proprio per la sua perenne inattualità, per la sua inefficienza, per la sua solitudine, per il suo diniego, per i suoi silenzi, per la sua lentezza, per la sua ostinazione a vuoto, per la sua auto-emarginazione, per i suoi fallimenti, per i suoi enormi sforzi senza risultato, per la sua incompatibilità col mondo. Come dice Blanchot: “In un mondo in cui qualunque dispendio di energia deve risolversi in un’azione reale che lo conservi, egli è l’immagine di ciò che si perde, (…) rappresenta un’azione che è il contrario dell’azione. È l’utile-inutile, vale a dire, nei confronti di un mondo profano, l’insensato e il sacro”.
Quando si parla di Giurato, lo si indica spesso come un’anomalia un po’ eccentrica della nostra canzone “d’autore”, una sorta di genio irregolare o di “disertore” che, dopo un filotto di dischi a dir poco formidabili, si è misteriosamente dato alla macchia, facendo perdere le proprie tracce per decenni. Un po’ come Salinger o, in modo più estremo, Majorana.
Qual è secondo te, se c’è stato, il suo principale contributo alla musica “leggera” italiana? Perché, in altre parole, non possiamo dimenticare la musica di Giurato?
Sono tanti i motivi che rendono Giurato un artista enorme. Flavio è stato uno dei primi – e forse quello che l’ha fatto con maggior forza – a introdurre il mondo borghese da cui proveniva all’interno della canzone d’autore, un’appartenenza che i cantautori delle generazioni precedenti avevano vissuto quasi come una colpa da espiare. Il Tuffatore è un disco capitale per cogliere questo passaggio generazionale, l’avvento del disimpegno da cui emerge però l’inquietudine, le tribolazioni individuali che prendono il sopravvento sui movimenti collettivi, un misto di luci e ombre. Un disco che aveva espresso già sul nascere di quegli anni ’80 tutto il loro incanto edulcorato e la loro spensieratezza, facendone però affiorare la fragilità e le contraddizioni. Flavio, inoltre, ha portato nella canzone d’autore il sudore dell’atleta, la competizione sportiva come sfida esistenziale. La scrittura di Flavio ha arricchito il linguaggio cantautorale grazie a un felicissimo rapporto fra il tessuto del racconto e lo strappo immaginifico, fra iperrealismo delle situazioni e loro trasfigurazione magica, fra narrazione e raffinata dimensione metanarrativa. Una scrittura semplice e ricchissima allo stesso tempo, illuminata da versi che colpiscono non per la loro erudizione o ricchezza lessicale, ma per la loro potenza evocativa, per la loro ironia, per il loro sofisticato sentimentalismo. E non ci si può dimenticare della voce di Flavio, una voce che ha anch’essa un corpo, e che riesce a veicolare tante intenzioni, fra l’aristocratico, il declamatorio, l’ostinato, e tanto altro.
Eppure, malgrado quanto detto fin qui, non ho detto ancora il motivo principale che rende, a mio avviso, Giurato un autore imprescindibile. Si tratta di un elemento più nascosto, sotterraneo, della sua espressività, che attraversa tutta la sua opera e non riguarda le vicende raccontate nelle varie canzoni. Si tratta delle differenti modalità con cui Flavio, secondo me, ha da sempre innescato un’impossibile lotta nei confronti della forma-canzone, nel tentativo di slabbrarla e manometterla affinché potesse accogliere l’enorme gittata emotiva della sua esistenza personale. Una lotta che è eroica nella misura in cui, pur non ammettendo vittoria, non conduce mai a una resa. Credo che la vera espressione abbia luogo in quegli spazi in cui non contano più i discorsi, le parole, ma dove i sentimenti e le inquietudini dell’artista hanno un loro esito diretto sul linguaggio, quindi sul corpo delle canzoni. Mi sembra interessante sottolineare – e ciò è ancor più chiaro nella seconda parte della carriera di Flavio – come il fatto artistico assuma la sua forza proprio per il suo essere frutto di un individualismo radicale, di un isolamento estremo, di uno sradicamento, quasi di una deriva dell’artista all’interno di sé stesso, di una voce che si parla addosso e non reclama uditori, di un grido nel deserto.
Descrivendo l’opera giuratiana mi pare che siano tre le chiavi interpretative che hai fatto maggiormente valere nella tua analisi. Il “gesto atletico”, il “dispendio” (inteso anche come sperpero) e una sorta di “espiazione borghese”. Puoi dirmi qualcosa a riguardo?
Io credo che Flavio abbia vissuto in modo ambivalente e contraddittorio la sua appartenenza borghese. Da un lato sentendo il bisogno di un distacco da quel mondo, dall’altro constatando l’impossibilità di tale separazione. Tale mondo, talvolta anche acritico e banale, funge da sfondo necessario su cui si svolgono le vicende di un uomo – di un atleta – dalla sensibilità differente. Anzi, è proprio grazie a quello sfondo che è possibile che l’uomo emerga in tutta la sua unicità, in tutta la sua bellezza non comune. Così, desiderando un distacco da quel mondo, ci si scopre di quel mondo un emblema, un simbolo, quindi ci si rinsalda in modo ancora più forte rispetto a ciò da cui si desiderava allontanarsi. Il viaggio di Marco Polo è, a mio avviso, il tentativo di attuare questo impossibile allontanamento, impossibile e perciò perseguibile solo in una dimensione immaginaria, epica, di sogno. L’atletismo, invece, riguarda proprio questa lotta estenuante fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, questo tentativo impossibile di superare sé stessi, qualcosa a cui ci si avvicina indefinitamente senza mai raggiungerla, aspirazione viva e prolifica proprio nella misura in cui non si può compiere. E così, infine, raggiungiamo l’ultima chiave interpretativa a cui facevi riferimento, quella del dispendio. In una lotta di questo tipo si consuma più di quanto non si riceve, in un bilancio perennemente deficitario. E siamo tornati a quanto accennavo all’inizio: una lotta così improduttiva può apparire insensata, ed è perciò, a mio avviso, indispensabile.
Perché pensi che dopo vent’anni di silenzio Flavio Giurato abbia infine avvertito l’esigenza di tornare a incidere musica nuova?
Non credo che Flavio abbia sentito l’esigenza di tornare a incidere musica nuova. Flavio non ha mai smesso di creare, di scrivere le sue canzoni, di maneggiarle insistentemente negli anni, da quella piccola stanza occupata da un grosso pianoforte a coda e da svariate chitarre, senza mai mutare le sue abitudini e senza mai placare la sua ostinazione, anche quando il mondo musicale e discografico si era completamente dimenticato di lui, e quando gli ascoltatori che lo avevano amato non sapevano se fosse ancora vivo o meno. Poi è accaduto che un giorno una splendida persona come Antonio Zedda – tragicamente stroncato da questa pandemia – è andato a bussare alla sua porta, nel corso degli anni ‘90. Lo ha trascinato a forza sul palco, ha prodotto (con Giovanni Fumagalli) il disco che rompeva il suo lunghissimo silenzio, e il resto è venuto di conseguenza. Ma è importante tenere presente che per Flavio fare e non fare sono due possibilità equivalenti e che lui in prima battuta, come Bartleby, risponde sempre “preferirei di no”.
Sono due le cose che più mi hanno colpito del tuo libro. La prima è senz’altro l’inusuale forma che hai scelto di conferire all’opera, decisamente bipartita/bifronte. Ad una prima parte più strettamente “critica” segue infatti un corposo secondo atto che mi ha molto ricordato “I Detective Selvaggi” di Roberto Bolano: una storia “orale” composta da tante voci che si accavallano e tipograficamente spesso confondono, raccontando la stessa “vicenda” da punti di vista e secondo versioni anche molto diverse eppure via via convergenti. Puoi dirmi qualcosa su quella che a me pare qualcosa di più di una semplice scelta “di stile”?
Il libro è cresciuto e si è sviluppato seguendo direzioni impreviste, eppure c’è sempre stato dentro di me – magari anche in modo inconsapevole – la voglia di perseguire la mobilità, la vibrazione, la molteplicità, di osservare Giurato in modo perennemente problematico, di non incastrarlo in una rigida cornice interpretativa ma di rilevare la ricca stratigrafia della sua opera.
Una volta portata a termine l’analisi dei dischi, avevo appuntato su un foglio quattro o cinque nomi da intervistare. Sono inaspettatamente diventati quasi sessanta. La grossa mole di informazioni e pareri ricavate su Flavio ha finito per avere un grosso peso su di me, andando ad ampliare le mie riflessioni e a stimolarne delle nuove. È nata così l’idea di scrivere un terzo capitolo conclusivo, nel tentativo impossibile di raggiungere una sintesi fra i contenuti dell’analisi iniziale e quelli delle interviste.
Perciò io parlerei di una forma tripartita – o pluripartita considerando anche gli altri contributi presenti nel libro – che spero abbia donato al volume una fertile precarietà. Precarietà che riguarda appunto sia le mie idee su Flavio – che mutano anche radicalmente nel corso della scrittura (sia perché entrate in conflitto con i tanti pareri raccolti, e sia per un mio naturale cambiamento dovuto alla lunga gestazione del libro) – e sia le idee dei vari intervistati, non sempre allineate e spesso in opposizione fra loro.
Infine spero che tale forma complessa, precaria e anche contraddittoria possa rendere il libro un oggetto che non solo parla di Giurato, ma un po’ lo personifica.
La seconda cosa che mi ha colpito del tuo lavoro è la presenza dello stesso Giurato che, in diversi momenti del libro, “prende” la parola e, per così dire, interviene sulla narrazione. Del resto si intuisce come, a mano a mano che inseguivi l’oggetto sfuggente della tua ricerca, nasceva con Giurato un rapporto di vera e propria amicizia.
Vorrei capire innanzitutto come Giurato ha reagito all’idea che qualcuno volesse scrivere un libro su di lui ma ti vorrei anche chiedere se il rapporto che nasceva con lui ha cambiato il tuo modo di scrivere il libro.
Ti ringrazio per questa domanda perché è un punto a cui tengo tantissimo. Il mio desiderio non era quello di realizzare solo un libro su Flavio Giurato, ma un libro con Flavio Giurato. Desideravo che il libro, dietro a una serie di analisi e di considerazioni, fosse anche la registrazione di una relazione, quella fra me e questo cantautore che tanto avevo ascoltato e amato. Trovo interessante che all’interno di questa relazione uno dei due amanti non ne era consapevole, e perciò lo scambio amoroso ha assunto le sembianze di una violenza carnale: così, nel violare l’arte di Flavio, è potuto accadere che io abbia fatto confluire in essa anche parte dei miei desideri e della mia vita. E così, portando avanti tali analisi, ho cercato gradualmente di mettere a fuoco la natura di questo mio amore, e non sempre – proprio in virtù di una tale immedesimazione con l’oggetto delle mie riflessioni – posso essere riuscito a scansare il pericolo del fraintendimento, o della forzatura interpretativa, o dell’eccesso d’enfasi. Ma per me tutto ciò fa parte del gioco, e sarebbe un sopruso obbligarmi a uno sguardo più distaccato e scientifico. Essendo quindi il libro di un innamorato, il discorso – come ha ben detto Roland Barthes – non può che essere anche confuso, eccessivo, frammentario, irrisolto, sempre appassionato.
Per quanto riguarda le reazioni di Flavio, è stato contento del libro, mi ha sempre aiutato a reperire informazioni o contatti, ma credo che viva questa pubblicazione come un momento celebrativo – malgrado a mio avviso non lo sia – e quindi lo guarda con circospezione. Ha sempre pensato che le celebrazioni siano una minaccia, un modo per arrestarsi, per guardare indietro.
A me il libro è piaciuto moltissimo. Che tipo di feedback stai ricevendo dagli appassionati di Giurato ma anche dalle persone che sono state intervistate nel libro?
Sono felice che il libro abbia ricevuto tutte recensioni estremamente positive. Ho ricevuto anche commenti entusiasti di alcuni lettori, e di persone che hanno partecipato al volume. Ricordo una bellissima telefonata che mi fece Maurizio Catalano, colui che ha prodotto il primo disco di Flavio, nel 1978. E ricordo anche un commento di Alberto Scotti – artista che stimo molto e che conosce come pochi i meandri della musica italiana – che ha definito il volume “una biografia critica scritta in forma filosofico-romanzesca”. Mi è sembrata una definizione molto bella poiché associa alla forma biografica – che intende ricostruire con precisione la vita di una persona – l’elemento romanzesco che, al contrario, ha che fare con l’invenzione letteraria. Un po’ si riferisce e un po’ si mistifica.
Un paio di domande più generali, in chiusura. Che cosa, secondo te, contraddistingue una buona monografia critica dedicata ad un musicista/band? Quali dovrebbero essere i suoi obiettivi?
Non so se il mio sia un buon libro o meno, ma se lo fosse credo che ciò possa essere dovuto a una buona dose di dilettantismo e a un totale amore nei confronti dell’oggetto di cui avevo scelto di scrivere. Ecco, vorrei leggere libri di autori anche semidilettanti ma totalmente innamorati, a cui magari manca qualche strumento critico ma a cui non manca mai la necessità d’esprimersi. Anche un libro monografico su un artista dovrebbe comunque avere a che fare in qualche modo con un atto creativo.
Secondo te, e sulla base anche di questa tua esperienza letteraria, scrivere a proposito della musica che amiamo può aiutarci a capire di più su di essa? Oppure ci allontana dall’essenziale?
È una domanda importante da porsi. Il verbo “spiegare” significa “svolgere, distendere ciò che era ripiegato o avviluppato, in modo che l’intera superficie risulti aperta e distesa, e visibile”. In questo senso credo non ci sia nessuna necessità di “spiegare” le canzoni, o i dischi, o le opere d’arte in genere. Molto meglio che restino avviluppate, ripiegate, integre nel loro mistero. Tentare di farlo può condurre a un risultato molto banale, puerile, lontana eco dell’opera, e che accresce una sorta di chiacchiera sterile intorno a essa. Un’opera d’arte dovrebbe avere la caratteristica stessa della vita, cioè quella di essere perennemente in divenire, e quindi costituzionalmente sfuggente, refrattaria a essere incastrata in una definizione univoca. Tutt’altra cosa è se ciò che scriviamo su di essa nasce da un bisogno creativo, e che può quindi amplificare l’opera, o far riverberare in modo dirompente alcuni suoi tratti nascosti. Bisogna che dalla vita nasca nuova vita, l’alternativa è che ci si accosti ad essa come vivisezionando un cadavere.
Stai lavorando su nuovi progetti al momento?
Si, un libro che riguarda sempre l’ambito della musica italiana. Per il momento posso dire solo che vorrei scrivere un libro che, ad ogni apertura, accada. Vorrei scrivere un libro orale. Spero di esserne in grado.
Ultima domanda, del tutto personale. Ma Flavio è della Lazio o della Roma?
Flavio tifa Roma!
Giuliano Ciao
Le Gocce di Sudore più Duro
Crac Edizioni
pp. 392
€ 20
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