Flyte – This Is Really Going To Hurt

Francesco Giordani per TRISTE©

Parlando del grande Charles Baudelaire, l’altrettanto grande Paul Valéry ebbe a osservare che “ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore”, perché “l’essenza del classicismo è di venir dopo”, e “l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre” (traggo la citazione da questo splendido saggio).

Non so, né mi azzardo a sostenere che quella appena citata sia una Legge sempre valida nelle vicende spesso intricate della storia dell’arte ma certo essa mi aiuta a comprendere il senso di un’opera come This is really going to hurt, dei londinesi Flyte.
Il terzetto londinese, che mutua il nome da Sebastian Flyte, protagonista di Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh (e successive trasposizioni filmiche), con il suo secondo album conferma il proprio status di felice quanto isolata eccezione, per così dire “controriformistica”, nell’odierno panorama neo(post)punk anglo-irlandese.

Del resto basta scorrere i crediti del lavoro per capire che aria tira tra i solchi di queste nuove dieci canzoni, incise dagli Inglesi a Los Angeles con l’aiuto di Justin Rosen (Angel Olsen), Andrew Sarlo (Big Thief) e Ali Chant (Aldous Harding). Lontani un oceano più un intero continente da Shame, Dry Cleaning, Black Country, New Road (per citare tre dei progetti musicali più elogiati – a ragione, beninteso – in Inghilterra negli ultimi tre mesi), i Flyte hanno scolpito il loro piccolo monumento poetico-sonoro ad un’America orgogliosamente folk-rock quanto generosamente cosparsa di unguenti e pomate Sixties.

Il cantante Will Taylor, parlando del bellissimo singolo Under The Skin (quasi una resurrezione dei migliori Shins), l’ha definito “an ode to a relationship on the brink of destruction” ma la formula può essere facilmente estesa a tutto l’album visto che il movente principale, se non esclusivo, di buona parte delle canzoni di This is really going to hurt è proprio l’elaborazione della fine di un amore durato otto anni (a cui si è presto aggiunta anche la dipartita, nel 2019, del tastierista Sam Kerridge).

La riflessione sofferta e mai gratuitamente retorica degli Inglesi si snoda fra cavalcate “a pelo” in stile Midlake/Fleet Foxes (There’s a Woman, ma occhio anchealla wilcoana Trying to Break Your Heart), sparsi illusionismi psych-folk (I’ve Got a Girl) a là Grizzly Bear – del resto già molto presenti nell’esordio del 2017 The Loved Ones -, affondi al cuore in punta di plettro memori del miglior Elliot Smith (il magistrale dittico d’apertura Easy Tiger-Losing You) e un sentore tutt’altro che peregrino di Neil Young (con annessi Crosby, Stills & Nash), più netto che altrove soprattutto in Love Is An Accident, Mistress America e Never Get To Heaven.

Di cose da mettere in ordine o, per meglio dire, da ricondurre ad una misura rigorosamente “classica” i Flyte ne avevano parecchie. D’altra parte, per riprendere il discorso nel punto da cui eravamo partiti giusto all’inizio, è proprio dopo una grande tempesta romantica che più irresistibile si affaccia in noi l’esigenza di raccogliere i frammenti sparsi di ciò che eravamo (o credevamo d’essere) per farne figura compiuta, armoniosa.

Non sappiamo ancora se le forme finemente cesellate dei Flyte contengano un’indicazione precisa su un “ritorno all’ordine” che la musica futura ha in serbo per noi, dopo anni di tribolate peripezie. Nell’attesa di capirlo, possiamo tuttavia limitarci a godere del loro ascolto.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...