Tiziano Casola per TRISTE©
Contrariamente a quando ero ragazzino non provo oggi più alcun interesse nell’andare ad informarmi sulla storia che si nasconde dietro un disco o una band (raccolgo già informazioni precise tutti i giorni per le mie ricerche dottorali, dunque non ne ho alcuna voglia di farlo nel tempo libero), ma ho una sensazione riguardo questo album a nome Chime School.
Andiamo a verificare su Google e… sì, ok, ci ho preso, bene!
Chime School è il progetto solista di Andy Pastalaniec, in passato membro di varie band californiane e via dicendo.
Non c’è nulla di male nel farsi le canzoni da sé, sia chiaro, anzi un tempo questo approccio mi piaceva molto. Solo che, ecco, in un mondo in cui i progetti musicali somigliano sempre più a profili social, riesco solo a desiderare i gruppi, le band.
Le band come ultima traccia di un’epoca senza smartphone, senza prosumer e in cui si suonava più che altro insieme agli altri. Nel bene e nel male, con annesse tutte le litigate e le insoddisfazioni di rito, ma almeno si aveva la certezza di un’interazione.
Lo dico perché, per me, questo disco ha un solo difetto, dunque parliamone subito e poi passiamo alle cose belle.
Il difetto – perdonabile – del disco di Chime School è l’utilizzo di una drum machine settata, appunto, in quel modo che lascia chiaramente dedurre che si tratta di una one man band, insomma di qualcuno che si registra le canzoni da solo.
Si sente che questo disco è frutto di un solo cervello e se quella drum machine fosse stata camuffata un po’ lo avrei apprezzato (esisterebbero pure tanti modi, metterci dei piatti veri, mandare fuori tempo i piatti finti, svuotare l’equalizzazione, e via dicendo), ma vabbè, è andata così.
Mi perdoni Andy Pastalaniec se mi sono dilungato. Passo subito ai pregi del disco, perché ce ne sono eccome.
Il primo chiaramente sono le canzoni. Niente di nuovo, parliamo di canonico indie pop in stile Sarah Records o C86. Dunque: accordi maggiori, ogni tanto settima diminuita, chitarrone jangle, hammond e tutto ciò che serve.
Esiste anche un tutorial su youtube che spiega come farlo da dio. Ed è giusto che sia così. Perché sì, su certi versanti musicali è consigliato, anzi è d’obbligo, mantenersi conservatori e citazionisti sino all’osso.
Niente di nuovo? Bene, punti in più! Disco dei Chime School, ti ascolto a ripetizione proprio per questo!
Poi è chiaro che per fare centro del tutto serva sempre la botta di genio, quel passaggetto melodico o quell’accordino piazzato al punto giusto tanto da far capire a chi ascolta che si è sulla stessa linea d’onda.
Sta lì il senso della musica di genere. Insomma, quando si è fan di qualcosa, si cerca sempre la garanzia che chi te la stia vendendo la pensi un po’ come te.
Volendo fare un po’ di autoanalisi mi accorgo che capita spesso che alcuni amici facciano apprezzamenti su questo o quell’altro gruppo usando affermazione come “questi hanno capito tutto“. Tradotto: “questi musicisti intendono questo genere musicale così come lo intendiamo io e te, amico mio. Lo si capisce da questo dettaglio, che mi rimanda a tante altre cose, ma a nessuna in particolare“.
Per quanto riguarda i Chime School non c’è storia, è chiaro che siamo di fronte a chi il suo lavoro di indiepopper sa farlo come si deve, una canzone come Dead Saturdays è un colpo ben assestato. Ma anche Radical Leisure lo è, anzi forse di più.
Eppure, la cosa che più mi piace è la copertina, che mi ricorda Henri Matisse. Anzi, ad occhio e croce mi sa proprio che si tratta di un collage realizzato con immagini dei papier découpé di Matisse, ritagliate da qualche catalogo o simili. Un collage di collage insomma. Qualunque sia la storia dietro la copertina, è il riferimento al Novecento artistico che mi piace e mi fa – stranamente – simpatia.
Per me il twee pop è strettamente connesso al passato. Nello specifico all’epoca in cui questo era ancora attuale, ovvero i primi anni Novanta, quando io cioè andavo alla scuola materna, oppure all’epoca dell’adolescenza, tematica per eccellenza del genere. In entrambi i casi passavo gran parte delle mie ore in edifici scolastici, che in provincia di Latina vuol dire grossi casermoni di cemento funzionalisti. Nonostante a molti possano apparire orripilanti, è a quei blocconi di cemento lurido che lego i miei ricordi più dolci.
Aggiungiamoci l’aver frequentato un liceo artistico ad indirizzo architettura, qualche professore amante dell’architettura brutalista e dei casermoni sovietici, ed ecco qui spiegato come la connessione tra tweepop e un certo Novecento sia per me la cosa più logica del mondo.
Recentemente ho realizzato come la mia ragazza, che ha fatto il liceo in un castello medievale tutto pietre e archi a sesto acuto, abbia i suoi punti di riferimento visivi legati ad un immaginario completamente diverso dal mio. Che ci posso fare, per me il tweepop è una questione di nostalgia dell’infanzia e dell’adolescenza, ed entrambe le cose per me si sono svolte perlopiù in un certo tipo di edifici.
Sulla Nettunense c’era – spero ci sia ancora – un ristorante di moldavi, i cui proprietari tengono appeso un poster raffigurante non so quale monumento moldavo, che consiste, per farla breve, in un grosso pilastro di cemento. Mi dicevano anni fa che altri loro connazionali espatriati ogni tanto andavano lì per guardare la foto. Credo che il sentimento sia pressappoco lo stesso, ed è più o meno ciò che provo per il disco dei Chime School.
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