
Francesco Amoroso per TRISTE©
Quest’anno (o meglio lo scorso, visto che siamo già nel 2022) ho cominciato a pensare al riepilogo di fine anno sin da gennaio, forse per il trauma che ogni volta mi provoca il tentativo di racchiudere, in un lungo e verboso articolo, passioni e sensazioni di dodici lunghi mesi.
Stavolta avevo la speranza di non dovermi ritrovare a fine anno a tentare con fatica di recuperare nella mia memoria, sempre più traditrice, gli album e le canzoni che avevano fatto battere il mio cuore nei trecentosessantacinque giorni precedenti e così mi sono messo di buona lena a scrivere e scrivere, a imprimere su carta (o, più spesso, su supporto telematico) i miei pensieri e le mie (opinabilissime) opinioni su tutta la musica che più mi colpiva.
Eppure non tutto è andato per il verso giusto.
Facendo un bilancio, quasi un terzo dei miei album preferiti è rimasto fuori dalle “recensioni” di TRISTE©. E molti altri, pur avendomi colpito e coinvolto, non sono riuscito ad approfondirli nel modo adeguato (mi vengono in mente l’ultimo di Marissa Nadler, l’esordio degli Aeon Station, il delicato lavoro dei Pleasance House, il secondo lavoro dell’australiana Jessica, ma potrei elencarne a decine).
Leggendo le classifiche e i riepiloghi altrui, poi, mi sono reso conto di aver mancato tanti album che sembrano essere decisamente nelle mie corde e me ne dolgo, nella speranza di avere tempo per recuperarli nel corso del 2022, senza essere travolto dalla messe di novità che già mi attende minaccioso. Eppure anche quest’anno ho ascoltato, con una certa attenzione, quasi 1500 tra album e e.p.. Evidentemente non basta.
Se negli anni scorsi avevo notato quanto le “classifiche” fossero sempre più parziali e poco indicative, questa volta mi è parso di vedere citati spessissimo alcuni lavori che sono stati importanti anche per me (i nomi sono facilmente intuibili) e questa constatazione mi ha fatto chiedere se vivo sempre di più in una bolla (frequentata per lo più da appassionati di musica un po’ attempati) o se davvero ci sono stati alcuni album che hanno messo d’accordo davvero tutti. Dubito che sia possibile trovare una risposta definitiva, ma propendo, nettamente, per la prima ipotesi.
Se devo trarre qualche conclusione dal lungo elenco che sto per condividere con chiunque avrà la pazienza di arrivare fino in fondo (ma anche se arrivate a metà meritate un premio) è che il 2021 per me è stato l’anno della Scozia (ma questa non è certamente una novità) e di San Francisco, la cui scena pop indipendente (ho letto da qualche parte una definizione che aveva a che fare con la nebbia, tipo fog-gaze o fog-pop, ma non ricordo esattamente e rifuggo dalle etichette…) mi ha letteralmente stregato. Citerei anche il ritorno definitivo delle chitarre in Gran Bretagna e il grandissimo produttore Dan Carey (della Speedy Wunderground) che è stato l’artefice del suono di numerosi album di qualità e di alcuni tra gli esordi più interessanti dell’anno (e di cui, magari sentiremo parlare più diffusamente nel 2022): Honeyglaze e The Lounge Society su tutti.
Purtroppo a fine 2021 è anche scomparsa Beldina Odenyo Onassis, in arte Heir Of The Cursed, artista e cantante straordinaria che, nel 2019, avevo segnalato come uno dei talenti da tenere d’occhio per il futuro. Non c’è stato tempo perché il suo talento sbocciasse definitivamente, soprattutto non ce n’è stato perché fosse conosciuto e apprezzato come avrebbe dovuto, ma rimangono le sue poche magnifiche canzoni (che sarebbe bello vedessero la luce in una forma più compiuta prima o poi) e l’amore che ha lasciato nelle persone che l’hanno conosciuta.
Alcune solite avvertenze: 1) in questo lungo elenco ci sono solo album legati alle scene che prediligo e che conosco meglio, quindi non c’è da stupirsi se mancano album osannatissimi ma che, probabilmente, non mi sono neanche preso la briga di ascoltare; 2) cliccando il nome dell’album sarete portati alla recensione (se già presente su TRISTE©) o alla sezione di questo articolo nella quale è presente la recensione, mentre per ascoltare gli album ho, naturalmente, privilegiato Bandcamp (e inserito l’odiato Spotify solo se necessario); 3) c’è anche un breve elenco degli e.p. che più mi hanno entusiasmato nell’anno appena trascorso (e si trova qui).
Buona musica e buon 2022.
I VENTI PIU’ AMATI DEL 2021
Constant Follower – Neither Is, Nor Ever Was
The Reds, Pinks and Purples – Uncommon Weather
David Christian and The Pinecone Orchestra – For Those We Met On The Way
Flowertown – Time Trials / Flowertown
Lightning Bug – A Color Of The Sky
Tigers & Flies – Among Everything Else
Starlight Assembly – Starlight And Still Air
Mogwai – As The Love Continues
Nation Of Language – A Way Forward
Josienne Clarke – A Small Unknowable Thing
Permanent Vacation – A Love Song for Everyone / Hymn From The Backseat
Gli Altri Ottanta
Kings of Convenience – Peace Or Love
Cassandra Jenkins – An Overview On Phenomenal Nature
William Doyle – Great Spans of Muddy Time
Karen Peris – a song is way above the lawn
Tasha – Tell Me What You Miss The Most
James Yorkston and The Second Hand Orchestra – The Wide, Wide River
Mt. Misery – Once Home, No Longer
Phantom Handshakes – No More Summer Songs
Myriam Gendron – Ma Délire – Songs of love, lost & found
Sufjan Stevens & Angelo De Augustine – A Beginner’s Mind
Lost Horizons – In Quiet Moments
Cheval Sombre – Time Waits for No One / Days Go By
Black Country, New Road – For the First Time
Teenage Fanclub – Endless Arcade
Will Stratton – The Changing Wilderness
The Weather Station – Ignorance
Raoul Vignal – Years in Marble
Matt Maltese – Good Morning It’s Now Tomorrow
Godspeed You! Black Emperor – G_d’s Pee AT STATE’S END!
The Catenary Wires – Birling Gap
Painted Shrines – Heaven and Holy
Postcards – After the Fire, Before the End
Jesse Marchant – Antelope Running
French For Rabbits – The Overflow
Dinosaur Jr. – Sweep Into Space
Maple Glider – To Enjoy is the Only Thing
Pascal Babare – Cave Without a Name
Departure Lounge – Transmeridian
Adrian Crowley – The Watchful Eye Of The Stars
Damien Jurado – The Monster Who Hated Pennsylvania
Dean Wareham – I Have Nothing to Say to The Mayor of L.A.
The Hepburns (Feat. Estella Rosa) – Architecture Of The Ages
Marta Del Grandi – Until We Fossilize
Перемотка – Начало прекрасной дружбы
Olivier Rocabois – Olivier Rocabois Goes Too Far
Swansea Sound – Live at the Rum Puncheon
Deep Throat Choir – In Order to Know You
My Home, Sinking – Let It Fall
Le recensioni
William Doyle – Great Spans of Muddy Time
Lasciatosi alle spalle il moniker East India Youth e le sonorità che passavano agili dall’ambient alla techno più muscolare fino al pop elettronico degli anni 90, Wlliam Doyle ha pubblicato, nel 2019, a proprio nome, lo straordinario Your Wilderness Revisited, lavoro riuscitissimo, profondamente voluto, studiato e sentito. Great Spans Of Muddy Time nasce, invece, dal fortunoso recupero di registrazioni salvate solo su cassetta, dopo il crash del disco rigido sul quale erano conservate. Così, se per il disco precedente Doyle aveva lavorato in maniera certosina per quattro anni, stavolta è stato costretto ad un approccio ben più spontaneo e diretto. Ciò non toglie che anche questo lavoro, insieme a passaggi di elettronica dolcemente pulsante e a glitch ambientali, contenga struggenti ed elegantissimi brani tra pop e art-rock pieni di pathos. A frangenti oscuri e stranianti, si alternano squarci di elegiaca bellezza e Great Spans of Muddy Time è un’altra dimostrazione dell’impossibilità di imbrigliare il talento di William Doyle entro schemi e sonorità predefinite. Un album perfetto nella sua imperfezione.
Shoestrings – Expectations
Mario e Rose Suau, marito e moglie, hanno formato gli Shoestrings a metà degli anni ’90, quando i due erano al college. Il loro album di debutto, Wishing On Planes, uscito nel 1997, era imperniato su un indie pop fragile, delicato e affascinante, caratterizzato da testi romantici, pieni di grazia e understatement. Da allora Mario e Rose si sono presi una lunga pausa per evolvere le loro capacità di produzione e per perseguire altri progetti musicali. Questo autunno, a sorpresa, gli Shoestrings sono riemersi con il loro secondo album, Expectations, una raccolta di nove brani che spaziano leggeri e emozionanti tra synthpop, indiepop, dreampop e sophistipop (sempre che un tale genere esista), con un suono maturo eppure quasi impalpabile, costruito su chitarre carezzevoli, sintetizzatori morbidi, voci preziosissime e testi riflessivi. Sonorità fatte della stessa sostanza di cui sono fatti sogni (tanto per citare un menestrello a caso). Expectations è una riflessione delicata, sincera e malinconica sul passato e sui rapporti interpersonali, scevra da banale sentimentalismo e da ogni romanticismo d’accatto. Un lavoro sempre a fuoco e pieno di meravigliose melodie. Mario e Rose hanno sempre detto che il loro intento principale, nel formare una band, era quello di scrivere, registrare e produrre canzoni memorabili con sentimenti sinceri e riconoscibili. Con il loro ritorno sulle scene, a quasi un quarto di secolo dall’esordio, hanno, senza dubbio, raggiunto il loro scopo. Un album di rara grazia.
Lost Horizons – In Quiet Moments
Quattro anni dopo Ojalá, il duo formato dall’ex Cocteau Twins (e capo della Bella Union) Simon Raymonde e dall’ex Dif Juz Richie Thomas torna con un corposo lavoro di ben sedici tracce (la prima metà delle quali uscite a fine 2020) che si muove seguendo lo stesso schema dell’esordio e che raggiunge, a tratti, vette di estrema bellezza. Merito sia della produzione e degli arrangiamenti impeccabili, che del songwriting del duo che, rispetto all’esordio, sale chiaramente di livello. Le straordinarie performances (tra le tante) di John Grant, di Tim Smith dei Midlake, della svedese Kavi Kwai (la cui voce celestiale non può non rimandare, con un brivido di piacere, all’immensa Elizabeth Fraser), dell’ottuagenario Ural Thomas, di Marissa Nadler e di Lily Wolter (dei giovani Penelope Isles) contribuiscono a rendere il lavoro variopinto e stimolante, permettendo al progetto Lost Horizons di spaziare tra trip-hop, folk, soul, dream pop e jazz con estrema grazia e nonchalance. La perla assoluta arriva, però, in chiusura: This Is The Weather con la voce di Karen Peris di The Innocence Mission che, accompagnata da un semplice piano e da un aereo arrangiamento d’archi, è capace di scogliere, con il suo delicato calore, anche i ghiacci più tenaci. Eclettico e raffinato, In Quiet Moments riserva, nei suoi momenti più alti, diletto e incanto anche per i palati più esigenti.
Hand Habits – Fun House
Frutto anche di lunghe sedute di terapia, Fun House, il terzo lavoro solista di Meg Duffy (Hand Habits) è soprattutto il risultato della collaborazione con i coinquilini Sasami Ashworth (Sasami) e Kyle Thomas (King Tuff), che sono intervenuti in fase di produzione sul materiale registrato da Duffy. Ne è venuto fuori l’album più complesso di Hand Habits e quello più lontano dalle sonorità tipiche dell’artista americana. Nonostante praticamente tutti i brani siano cantati da Meg con la sua tipica inflessione folk, infatti, gli arrangiamenti per lo più incorporano trovate elettroniche e ritmiche peculiari, che ne virano le sonorità verso un pop sofisticato e accattivante. Il matrimonio tra voce calda e suadente, testi introspettivi e sonorità più brillanti, dà vita a canzoni straordinarie, come il duetto con Perfume Genius Just to Hear You, l’eccellente Clean Air, che nasconde il fuoco sotto la cenere (guardare il video per credere), o la melodia sublime di No Difference. Non mancano brani che faranno felici gli estimatori del lato più intimo e confessionale di Duffy (la scarna e delicatissima Graves, il folk pop di False Start), né passaggi di quasi canonico roots-rock (Gold/Rust, Concrete & Feathers), ma Fun House è soprattutto il lavoro che mette le ali alle composizioni di Hand Habits e le fa librare verso lidi sonori liberi da ogni schema o steccato.
Teenage Fanclub – Endless Arcade
Endless Arcade, il dodicesimo album dei Teenage Fanclub è stato forse il primo della loro carriera (che seguo sin dai primi singoli) a non avermi immediatamente colpito. L’ho trovato decisamente più cupo e monocorde dei precedenti. Ma poi ho capito. Anche stavolta gli scozzesi hanno fatto centro: la cupezza, il suono dimesso e meno scintillante del solito era perfetto per trasmettere quello che la band di Glasgow aveva bisogno di dire stavolta. Del resto il titolo del singolo di punta, Everything Is Falling Apart, avrebbe dovuto già dirmi qualcosa. Al momento di scrivere l’album, la situazione in cui si trovavano i Teenage Fanclub non era delle più rosee: Gerard Love se ne era andato dopo trent’anni insieme, nel 2018, e il rapporto ventennale di Norman Blake con la sua partner era in grave crisi (lei in Canada, lui di nuovo in Scozia). Per una band che ha fatto della sincerità e della spontaneità il proprio vessillo (canzoni come Mellow Doubt o I Don’t Want Control of You sono tra le più genuine canzoni d’amore mai scritte), era inevitabile che Endless Arcade si soffermasse seriamente sulla fine dell’amore, sulle sue ricadute emotive e sulla necessità di trarre gioia da ogni piccola cosa. Sono nate così le canzoni più agrodolci e tristemente sentimentali come The Sun Won’t Shine on Me, Living With You o Endless Arcade, ma anche quelle più articolate e oscure quali la lunga Home e Everything’s Falling Apart, tutte, tra l’altro, caratterizzate anche dalle tastiere in primo piano, suonate dall’ex Gorky’s Zygotic Mynci Euros Childs, ormai membro a tempo pieno della band. Magari non il loro lavoro più scintillante, ma sicuramente un album sincero, pieno di melodie incantevoli e di profondità emotiva.
Massage – Still Life
Alex Naidus era un membro dei The Pains of Being Pure At Heart di Kip Berman e questa sua militanza ha inizialmente aiutato i Massage, formati con Andrew Romano, a farsi conoscere e apprezzare. Ma ciò che ha davvero fatto la differenza è stata l’uscita del loro album d’esordio, Oh Boy, nel 2018, un sentito tributo ai loro eroi (The Feelies, the Go-Betweens, la Flying Nun), pieno di canzoni orecchiabili e chitarre scintillanti. Il loro secondo lavoro, Still Life, parte da lì e regala dodici gemme lucenti tra jangle pop e C86, con brani quali Michael Is My Girlfriend e In Grey And Blue, che non possono non considerarsi tra i più riusciti dell’anno in ambito indiepop. Le chitarre corpose di Half A Feeling, la scintillante Made Of Moods, tra Sarah Records e i primissimi Stone Roses, Sticks & Stones che rimanda alla Creation di Primal Scream (i primi, naturalmente) e The Weather Prophets, 10 & 2 e le sue chitarre tra Byrds e R.E.M. (e potrei citarle tutte), compongono un album leggero e pieno di grazia, un deciso passo avanti rispetto all’esordio, sia in termini di scrittura che di arrangiamenti. Canzoni cristalline perse nelle nebbie tra la California e l’Inghilterra.
Lump – Animal
La straordinaria cantautrice Laura Marling (ora ingiustamente un po’ sottovalutata, dopo i successi degli esordi) e il genio degli arrangiamenti Mike Lindsay dei Tunng, con la prima a dare parole e voce alle composizioni ambiziose e bizzarre del secondo, avevano già dato vita a un ottimo esordio a nome Lump, nel 2018, e sono tornati con Animal a miscelare chitarre trattate, sintetizzatori Moog, ritmiche incalzanti, drones, fiati e chi più ne ha più ne metta.
Il connubio tra l’alt-folk di Laura Marling e la folktronica di Mike Lindsay sembra stavolta essere ancora più efficace e coinvolgente, con composizioni quali la favolosa title-track che riescono a fondere elettronica, melodia, sonorità futuristiche e retrò, creando gioielli pop che penetrano nella testa con estrema facilità e che, invece, con difficoltà la lasceranno.
Spunti elettronici cupi caratterizzano We Cannot Resist, ritmiche spezzate e melodie zuccherine Gamma Ray, mentre l’iniziale Bloom At Night e la magnifica chiusura di Phantom Limb (che in sei minuti e mezzo passa dal folk al post punk e ci aggiunge anche i credits in chiave spoken word), così come l’introspettiva Red Snakes, suonano più ponderate e suadenti. Un connubio artistico tra due maestri, sempre più stimolante e riuscito.
Godspeed You! Black Emperor – G_d’s Pee AT STATE’S END!
Il giorno dopo la strage del Bataclan e gli attentati di Parigi, assistetti, ancora attonito e con una vaga inquietudine, a un febbrile e monumentale concerto romano dei Godspeed You! Black Emperor. Era il 14 novembre 2015. A distanza di sei anni da quell’evento e a quattro dall’ottimo Luciferian Towers, ritorna il combo guidato da Efrim Manuel Menuck con un lavoro che veicola sonorità e messaggi ormai iconici ma ancora assolutamente attuali. La visione apocalittica della realtà, i toni militanti e la fiera opposizione all’estabilishment, che hanno sempre caratterizzato dall’inizio i venticinque anni di carriera della band, assumono ai nostri occhi, alla luce degli avvenimenti recenti, connotati quasi tristemente profetici. G_d’s Pee è una delle pagine più strazianti della formazione canadese, un album che fornisce una colonna sonora adeguatamente ferale alla fine di un’era, a un momento di doloroso passaggio, procedendo tra post-rock sempre più destrutturato, droni, musica cameristica e desolati passaggi orchestrali. La miscela dei canadesi stavolta tocca vette di malinconia (soprattutto nei due brani brevi) inusitate, ma a ogni passaggio sommesso e dolente, si contrappongono sprazzi di rumore bianco, di puro suono anarchico e ribelle (in particolare nelle due lunghe suite). Un album che è la risposta a chi suppone che il post-rock sia morto e che, ben più dei fighetti di turno, rappresenta lo zeitgeist.
Chantal Acda – Saturday Moon
Concepito inizialmente da Chantal Acda come un’opera più essenziale, il nuovo lavoro dell’artista belga/olandese è, a conti fatti, il suo album più intenso e personale. Registrato, in pieno 2020, anche come necessaria reazione all’isolamento da lockdown, con numerosi ospiti di prestigio tra cui il chitarrista Bill Frisell e Mimi Parker e Alan Sparhawk dei Low, è il primo album prodotto in proprio dalla Acda senza alcun intervento esterno, il che lo rende molto più istintivo e di difficile catalogazione. Il risultato è un album composto da sonorità meno omogenee del solito che, nonostante le numerose fonti di ispirazione sonora e grazie alla notevole capacità di scrittura – e alla sempre inimitabile voce di Chantal, che continua nel tempo a regalare brividi lungo la schiena – trova profonda coesione e riesce, ascolto dopo ascolto, ad aprirsi e svelare le eleganti sfumature dei suoi arrangiamenti. Forse meno immediato di altri lavori della produzione di Chantal Acda, Saturday Moon si rivela essere il suo album più coraggioso, libero da ogni costrizione e audace nelle scelte melodiche e sonore.
Painted Shrines – Heaven and Holy
A quanto pare il progetto Painted Shrines era nel cassetto di Jeremy Earl dei Woods e Glenn Donaldson dei The Red, Pinks & Purples (ancora lui!) da almeno tre anni, ma per registrare l’album d’esordio Heaven And Holy c’è voluta solo una settimana. E non si stenta a crederlo vista la genuina spontaneità con la quale le canzoni psych-pop del duo sgorgano dalla loro sapiente penna e dai loro strumenti. E’ la voce di Earl, con il suo inconfondibile e delicato falsetto a prendersi la scena, con Donaldson a lavorare in disparte, suonando le chitarre, mixando e producendo il tutto. Se la prima impressione può essere quella di un puro divertissement tra amici, canzoni come Saturates The Eye, Gone o Heaven And Holy dimostrano la perizia nel songwriting e la maestria negli arrangiamenti del duo, a proprio agio tra melodie cristalline e sonorità sixties. Sei brani cantati, conditi da cinque agili strumentali che si muovono eclettici dal pop acustico alla psychedelia beatlesiana, compongono un breve lavoro (poco più di 29 minuti in totale) che si districa leggiadro e piacevole tra chitarre malinconiche – giusto in qualche occasione increspate da leggere distorsioni (Fool, Moon Will Rise, la title-track) – e atmosfere delicatamente oniriche. Earl e Glenn volevano probabilmente solo divertirsi e farci divertire con loro, e, invece, ci hanno regalato un altro saggio del loro incredibile talento per la melodia. Speriamo non sia un episodio isolato!
Squirrel Flower – Planet (i)
Ha solo ventiquattro anni Ella Williams, alias Squirrel Flower, e ha già all’attivo due album di fattura pregevole e di profondità inusitata. Basterebbe ascoltare I’ll Go Running, la canzone che apre Planet (i), il suo secondo lavoro, che arriva a poco più di un anno dall’esordio I Was Born Swimming , per comprenderne appieno il valore: una melodia sommessa, disperata e cupa seguita da un crescendo tumultuoso che apre a sprazzi di speranza. Un’atmosfera che si ritrova lungo tutta l’opera, composta da brani che intrecciano fallimenti personali e disastri planetari, rendendo spesso palese la metafora contenuta già nel titolo: Planet (i) è il nome del nuovo pianeta su cui le persone si stabiliranno – e che poi distruggeranno – dopo aver abbandonato e distrutto la Terra. Non vi preoccupate, però, non si tratta di un concept album o di un’opera rock (Dio ce ne scampi…) ma di una dozzina di canzoni maestose che gettano un’occhiata coraggiosa oltre il baratro delle paure, delle ansie e dei problemi che da personali si fanno universali. Ci sono passaggi quasi grunge, come Roadkill o Big Beast, momenti delicati e pieni di passione, come Pass, la delizia acustica di Iowa 146 o Desert Wildflowers, ballate rock (To Be Forgotten) e brani più spiccatamente melodici, Hurt A Fly su tutti, ma l’atmosfera rimane sempre piuttosto tesa, dolente, riflessiva. Planet (i) è un nuovo saggio di composizione e interpretazione che arriva da un’artista giovanissima, ma che ha già dimostrato tutto il suo talento. Che si tratti di viaggi coast to coast o di esplorazioni planetarie, Squirrel Flower sarà sempre pronta a fornirci la colonna sonora adeguata.
The Umbrellas – The Umbrellas
L’album di debutto del quartetto di San Francisco (uscito per la Slumberland Records) rientra di diritto in quel filone dell’indiepop il cui vessillo è portato da The Red, Pinks & Purples e dall’etichetta Paisley Shirt Records e che si rifà direttamente al C86, alle chitarre scintillanti dei Byrds, al pop punk freschissimo e melodico dei Talulah Gosh, al Paisley Underground, agli scozzesi The Pastels o ai magnifici Comet Gain. Le dodici canzoni che lo compongono sono intrise di profumi sixties, dotate di melodie brillanti, ammantate di guitar-pop cristallino, cantate armoniosamente dall’alternarsi e intrecciarsi di ben tre voci. Sono dodici gemme rilucenti e vagamente malinconiche (come piace a noi) che richiamano alla mente sensazioni piacevoli e momenti nostalgici, allontanando qualsiasi possibile dramma. Nulla di nuovo sotto il sole, ma tutto, in questo lavoro, funziona alla perfezione: la brillante Lonely in apertura, Autumn, con il suo ritornello irresistibile, la zuccherosissima Happy, il pop psichedelico di Summer, l’esplosione sixties di She Buys Herself Flowers sono caramelle dolcissime da gustare sotto il sole, in una sorta di eterna estate dell’anima. Tra la California e la Scozia deve esserci un legame nascosto, ma solidissimo, fatto di corde scintillanti di chitarra e melodie irresistibili e The Umbrellas sono tra i figli prediletti di questo improbabile connubio.
Postcards – After the Fire, Before the End
Il suono dei libanesi Postcards – formatasi nel 2012 e all’esordio con I’ll be here at morning nel 2018 – si è evoluto, in quasi un decennio di attività, passando dal pop folk di chiara matrice americana e inglese, a sonorità più complesse e articolate che, non tralasciando la melodia, si avvicinano al dream pop, allo shoegaze e al jangle pop. Se tale evoluzione artistica era già evidente in The Good Soldier, il loro secondo album, uscito a inizio 2020, in After The Fire, Before The End, il terzo lavoro uscito a ottobre per l’etichetta tedesca T3 Records, la band, ora ridotta a un trio, compie il definitivo salto di qualità. Julia Sabra e i suoi due compagni d’avventura vivono e lavorano a Beirut e hanno vissuto in prima persona tutti i disastri che hanno colpito la loro città natale negli ultimi anni: la copertina dell’album è un’elaborazione delle immagini dell’incendio dopo l’esplosione del silo nel porto di Beirut, avvenuta nell’agosto del 2020 e il suo titolo lo richiama in maniera poetica e desolata. Eppure, da tanto dolore, nasce un’opera tutt’altro che disperata o nichilista. Il tono complessivo è certamente sommesso, a tratto quasi inevitabilmente funereo, come nella magnifica Home Is So Sad, ma canzoni sonicamente potenti come Mother Tongue o Sea Change suonano come una sorta di ribellione al fato, così come le ballate più malinconiche – If I Die, Summer, Bruises, Flowers In Your Hair – procedono lente e cadenzate, strazianti a volte, ma mostrano sprazzi di luce e speranza. After The Fire, Before The End è, così, qualcosa di più di un semplice album di canzoni dream pop egregiamente scritte ed eseguite: è la testimonianza in musica di chi ha vissuto un’immane tragedia e, grazie alla forza dell’arte, prova a venirne fuori, senza indulgere nella fin troppo facile inerme contemplazione del disastro.
Dinosaur Jr. – Sweep Into Space
Qualcuno di voi si è mai stufato di mangiare una buona pizza? Io no di certo!
Non so perché, ma ascoltando gli album dei Dinosaur Jr, soprattutto quelli del nuovo millennio, mi viene sempre in mente questa similitudine. Forse perché la band di J Mascis e Lou Barlow (e Murph) suona sempre uguale a se stessa, ma ascoltando i suoi album si prova sempre lo stesso piacere. Stavolta c’è la coproduzione di Kurt Vile e c’è la pandemia che ha interrotto le registrazioni (completate, infatti, in solitaria da J), ma anche in Sweep It Into Space – uscito ad aprile ma leakato involontariamente dalla stessa etichetta, che lo ha condiviso su SoundCloud per poche ore già a inizio gennaio – i Dinosaur Jr. suonano sbarazzini e melodicissimi come al solito, anzi di più (ascoltate And Me per credere, che rimanda un po’ alla loro mitica versione di Just Like Heaven). Sin dall’iniziale I Ain’t, ritroviamo gli assoli killer di chitarra e il ritornello irresistibile, così come accade nella successiva, ancor più rockeggiante I Met the Stones e in Hide Another Round, una canzone che ha scritto Dinosaur Jr in caratteri cubitali su ogni singolo passaggio. L’influsso di Vile si sente nitido in I Ran Away, dove, del resto il produttore e chitarrista si esibisce alla 12 corde e Take It Back è forse la canzone più particolare del lotto (siamo in territori ska????). Non mancano, poi, i (classici) due brani affidati a Barlow : l’elegiaca Garden e You Wonder in chiusura. Insomma con Swept Into Space ci si sente davvero a casa, nel senso migliore del termine. O, meglio, nella vostra pizzeria preferita a mangiare quella gustosissima margherita che solo J e Lou sanno fare così bene.
Coco – Coco
Lo scorso anno sono incappato, per caso, in tre canzoni di una band misteriosa (e non googleabile) chiamata Coco: Empty Beach, One Time Villain e Last of the Loving. Tre tracce brillanti e decisamente originali che mi hanno fatto venire una gran curiosità su questa band. E’ stato, però, solo all’inizio di quest’anno che i Coco si sono rivelati e si tratta di un terzetto di artisti tutt’altro che alle prime armi: sono Maia Friedman (Dirty Projectors), Dan Molad (Lucius) e Oliver Hill (Pavo Pavo). Il loro debutto omonimo uscito qualche mese fa, del resto, è un lavoro di estrema maturità, sia dal punto di vista della scrittura che degli arrangiamenti, intriso di luce, calore e di sonorità delicate e soffuse. Le loro canzoni si dipanano morbide e confortevoli: la magnificamente nostalgica Empty Beach in apertura è caratterizzata dalla vocalità aerea di Friedman e da un arrangiamento impalpabile, eppure efficacissimo, la successiva Knots, ancora più eterea e sognante, è resa consistente dal lavorio del basso, Last of the Loving è quasi esultante e la successiva Come Along è un brano pop delicatissimo e quasi volatile. Hard to Say Hello e One Time Villain dimostrano le doti della band in fase di arrangiamento e fungono da contraltare alle più scarne Over the Houses e Sage che flirtano apertamente con l’indie folk. Eleanor, posta verso la fine, è la summa delle capacità artistiche dei Coco: eterea e delicata, semplice ma niente affatto banale, caratterizzata dalla scrittura efficacissima e da un ritornello immediato, e cantata magnificamente. Mi chiedo come sia possibile, dopo innumerevoli ascolti, che questo album sia stato ignorato praticamente da tutti, quando è probabilmente il miglior lavoro di pop sofisticato dell’anno.
Jane Weaver – Flock
Prima con i Kill Laura e poi da sola, sono circa trent’anni che Jane Weaver è sulle scene, eppure, nonostante il suo primo lavoro solista risalga al 2002, è più o meno da Modern Kosmology, del 2017, che l’artista di Liverpool, ormai stabilitasi a Manchester, sta ottenendo il riconoscimento che merita. Flock è probabilmente il l’apice (almeno fino a questo momento) della sua parabola artistica, quello nel quale il suo amore d’infanzia per musicisti così distanti come Kate Bush e gli Hawkwind giunge alla perfetta sintesi. Lontano dalle costruzioni concettuali dei suoi lavori precedenti, Flock è un’opera più personale e intima: “Solo dieci canzoni pop per mettermi alla prova”, per dirla con le sue parole. Dalla malinconica ed elegiaca opening track Heatlow fino al finale dance di Sloarized, Flock è un album ricolmo di melodie incisive, con cosmici sintetizzatori analogici ancora in primo piano, sempre supportati da incalzanti ritmiche motorik, ma nel quale trovano spazio sonorità funky, pop e perfino costruzioni hip –hop. Un lavoro pieno di potenziali hit, di brani ballabili e immediati eppure ribelli e sperimentali, Flock è l’album della consacrazione per Jane Weaver, un’opera nella quale l’artista inglese è in controllo completo del proprio sconfinato e tardivo talento. Una graphic novel di fantascienza ambientata nello spazio siderale, che illumina l’oscurità del vuoto con colori brillanti e immagini vivide.
Pascal Babare – Cave Without a Name
Ogni anno, immancabile, arriva almeno una chicca folk dalla bravissima etichetta Oscarson. Stavolta si tratta di Cave Without A Name, quarto album dell’australiano Pascal Barbare. Pur non conoscendo i precedenti lavori di Barbare, è evidente che le sue coordinate artistiche si muovano intorno a sonorità indie-folk eteree, a un fingerpicking elaborato ma gentile e a una voce suadente e confidenziale. Cave Without Name è un album, insomma, che vive territori già ampiamente esplorati, ma la forza delle canzoni e dei delicati arrangiamenti gli permette di emergere: Haunted House è una carezza di chitarra acustica e voce morbida, Fold è accompagnata da un arrangiamento quasi cameristico, Easy Way ci abbraccia, calda e confortevole, Time, Oh Time culla e affascina, Duet irradia tenerezza e la traccia di chiusura, My Heart, solo voce e chitarra è come una coperta che ci protegge dai freddi invernali. I testi, invece, hanno spesso a che fare con la mortalità, affrontata, tuttavia, senza alcuna morbosità, né alcun dramma. Cave Without Name si muove leggiadro in territori folk e chamber pop classici e senza tempo, impreziosito dalla presenza della bravissima Lucy Roleff, emotivo con un suono intimo e asciutto e un songwriting misurato ed elegantissimo. Pascal Barbare potrà non aver inventato nulla di nuovo, ma ciò che fa lo fa egregiamente.
Adrian Crowley – The Watchful Eye Of The Stars
La voce di Adrian Crowley è di quelle che sono impossibili da dimenticare e The Watchful Eye of the Stars, il suo nono (o decimo, se contiamo la collaborazione con Yorkston) album, prodotto da John Parish, è un altro viaggio nella sua mente, nella quale ci accompagna con questa sua voce profonda e inquieta, che ti tiene avvinto e ti impedisce ogni distrazione, ogni scorciatoia. Questo viaggio notturno si apre con Northbound Stowaway, l’interazione tra gli archi del Crash Ensemble, la recitazione di Crowley e la seconda voce della bravissima Nadine Khouri, per proseguire con I See You Among Strangers, un brano peculiare per come è cantato, quasi in falsetto, e con Underwater Song nella quale gli arrangiamenti si muovono tra registrazioni casalinghe e orchestrazioni. Bread and Wine è classico Crowley: una ballata inquieta e inquietante dall’arrangiamento perfetto e dalla melodia magnifica. Colors of the Night aggiunge sfumature jazz alla palette sonora di Crowley e Ships on the Water suona desolata e solitaria come non mai. Crow Song è il brano centrale dell’album, che racconta la storia del ritrovamento di un corvo con un’ala spezzata, del tentativo di curarlo e della desolante scoperta del corvo morto ai piedi di una recinzione. In questa canzone si può trovare molto della poetica dell’artista irlandese, che costruisce, ancora una volta, un lavoro soffuso e nebuloso, inquietante, sentimentale e surreale, come nella conclusiva Take Me Driving, romantica e spiazzante. The Watchful Eye of the Stars è un album che non ha intenzione di cambiare il mondo, né di stupire, ma di colpire nel profondo e rimanere a lungo nella mente dell’ascoltatore, affiancando alla visione poetica di Crowley sonorità più oscure e inquietanti, che spostano il baricentro dell’autore irlandese dal cantautorato classico verso il chamber folk e il folk noir.
Sister John – I Am By Day
I Am By Day è il terzo album di Sister John, band formata da quattro polistrumentisti di Glasgow attorno al songwriting di Amanda Mckeown. Abbandonando i toni folkeggianti dei precedenti lavori per sonorità più alt-rock, la band ha avuto la capacità di scrivere brani più immediati e brillanti, senza perdere nulla del fascino nebuloso e vagamente lo-fi delle precedenti composizioni. I Am By Day è un album che si permette incorporare sintetizzatori e mellotron nella classica Americana della band, affiancandoli alle chitarre carezzevoli e alla voce melliflua di Mckeown. del miele e, come prevedibile, i testi rivelatori di Amanda. Insieme alla title-track e alla dolcissima e orchestrale traccia di chiusura, Glasgow Is A Rainbow, spiccano la incredibilmente pop What I Want, spiazzante nelle sue ritmiche e nel accattivante riff di chitarra quasi funk, la straordinaria Strange Ideas, una canzone la cui struttura incentrata sul violino rimanda alla memoria le glorie dei grandissimi e misconosciuti The Delgados, How Can I Keep it Alive, brano melodico che gioca con il country rock e accompagna il crescendo con riff di chitarra irresistibili, The Sound of You e la delicata Over Again permettono ad Amanda di sfoggiare performance vocali straordinarie. I Am By Day è un lavoro, insomma, che mostra la crescita e l’eclettismo della band di Glasgow e, al tempo stesso, ci regala canzoni elegantissime e ammalianti, sempre in bilico tra indie, country, folk e pop.
Dean Wareham – I Have Nothing to Say to The Mayor of L.A.
Cosa ancora si può dire di un artista come Dean Wareham? Uno che ha partecipato da protagonista alla breve e indimenticabile epopea dei Galaxie 500, che ha scritto capolavori di understatement psichedelico con i Luna, che ha collaborato con il magnifico Cheval Sombre e ha esordito in solitaria solo sette anni fa, dopo 35 anni di straordinaria carriera? Non molto, se non che anche questo suo secondo lavoro solista, a distanza, appunto di ben sette anni dall’omonimo e decisamente ispirato esordio, forse ancora più riuscito del suo predecessore. Le dieci canzoni che compongono I Have Nothing To Say To The Mayor Of L.A. (con ben due cover) pare siano, almeno in parte, state ispirate da Julian Barnes e dal suo The Man In The Red Coat, ma l’idea iniziale è spesso solo un pretesto per le acute e pungenti osservazioni di Wareham sul presente. Con la sempre puntualissima produzione di Jason Quever dei Papercuts e Britta Phillips che si occupa di basso, tastiere e cori, l’album dimostra ancora una volta (ma ce n’è ancora bisogno?) l’immensa classe di un artista che, seppur baciato da un certo successo, ha probabilmente raccolto meno di quanto avrebbe meritato nel corso della sia quarantennale carriera. In bilico tra folk (The Past Is Our Plaything, Cashing In), psichedelia (As Much As It’s Worth It, The Last Word, dedicata all’attivista e sindacalista Jenny Julia Eleanor Marx) e i soliti Velvet Underground (Robin & Richard, The Corridors Of Power), I Have Nothing To Say To The Mayor Of L.A. è l’opera di un artista navigato e dall’immenso talento, il cui suono della chitarra è ormai un marchio di fabbrica e la cui voce roca e acuta è impossibile non riconoscere. Un lavoro che è passato quasi inosservato nonostante i suoi indubbi pregi, forse solo perché oramai, il talento di Dean Wareham è dato per scontato. E questo è un errore madornale, che davvero non possiamo permetterci (anche alla luce della perfetta reinterpretazione di Duchess di Scott Walker).
The Hepburns (Feat. Estella Rosa) – Architecture Of The Ages
La band formata dai gallesi Matt Jones, Mike Thomas e Les Mun, The Hepburns, è sempre stata considerata una delle band più rappresentative e originali dell’era C86. Con un solo album all’attivo nel 1988 e ben nove nel primo ventennio del nuovo millennio, tuttavia, le loro sonorità non sono mai state solo improntate esclusivamente al guitar pop, ma hanno inglobato, nel corso delle loro uscite, influenze sixties, arrangiamenti eleganti, sonorità alla Burt Bacharach e suggestioni morriconiane, che accompagnano le storie e esaltano i personaggi che popolano le loro canzoni: di solito beautiful losers o piccolo borghesi o appartenenti alla working class stereotipici, sempre in bilico tra la farsa e la tragedia (emblematico è in tal senso il loro ultimo lavoro, Electric Lliedi Land, nel quale narrano caratteri e leggende urbane della loro cittadina gallese, Llanelli). La loro capacità di unire in maniera mirabile il jangle pop ad arrangiamenti più sofisticati ha fatto loro guadagnare l’ammirazione di tanti e, in particolare, di Estella Rosa, cantante del duo jangle pop Nah. e fondatrice del blog Fadewayradiate. La sorpresa, per Estella, è stata che l’ammirazione è risultata reciproca. Ne è nata l’idea di una collaborazione che, in breve tempo si è trasformata nella registrazione di un album completo con dieci magnifiche e preziosissime canzoni. Architecture Of The Ages è un ulteriore esempio delle magnifiche composizioni di The Hepburns, della loro straordinaria delicatezza di tocco, delle loro abilità con gli arrangiamenti e della loro innata eleganza. Caratteristiche che si sposano alla perfezione con la voce cristallina e deliziosa di Estella Rosa. La voce dei Nah. sembra nata per cantare o per armonizzare su questo tipo di canzoni e la sua grana impalpabile e delicatissima esalta brani quali Mermaid, What Was Not Became What Was, o Creatures Of The In-Between, facendo in modo che la sua partecipazione diventi il vero valore aggiunto di un disco che si pone tra i vertici della carriera della band gallese. Impeccabile, raffinato, dai suoni magnificamente misurati, zuccherino senza risultare melenso, Architecture Of The Ages è un’opera che ci catapulta fuori dal tempo e dalle mode, in una sorta di perenni anni sessanta (più immaginari, probabilmente, che reali). E a chi non piacerebbe evadere un po’ in momenti come questi?
W. H. Lung – Vanities
Mai avrei immaginato, qualche anno fa, di apprezzare un album che molti hanno descritto come dance o ,synth-pop. Eppure i tempi cambiano e a volte i suoni fanno brutti scherzi. In questo caso si tratta del più classico effetto madeleine per me, perché il secondo album dei manciuniani W.H. Lung (il primo l’ho mancato del tutto) mi rimanda a sonorità che, seppure non abbia mai davvero amato, ciononostante fanno parte del mio bagaglio musicale sin dalla prima gioventù. Nelle nove canzoni di Vanities, infatti, si trovano riferimenti più o meno espliciti al suono dark sintetico degli anni ottanta (Gd Tym), alla new wave di band quali Simple Minds o Depeche Mode (Ways of Seeing), ai grandi (e sottovalutati) Bronski Beat (Calm Down) e ai loro successori Communards (Pearl In Palm, Somebody Like). Showstopper, poi, il brano meglio riuscito in assoluto, potrebbe essere stata scritta in qualsiasi momento tra il 1980 e il 1985 (eppure mi sembra abbia chiari rimandi anche a qualcosa dei nineties). Vanities potrebbe essere definito un album dance, con le sue ritmiche incalzanti, i suoi synth indemoniati e la voce che raggiunge spesso il falsetto, ma non si tratta, certamente, di un album banale o inconsistente. Canzoni come ARPi sono costruite con grandissima maestria e un brano come la già citata Showstopper, con quelle chitarre quasi dark e i suoi suoni sintetici farebbe la fortuna di band ben più blasonate, così come Kaya, sorta di coming down posto alla fine del programma. Con tutta probabilità 30 o 35 anni fa questo album non mi sarebbe piaciuto, ma, col tempo, si sa, si acquista saggezza (e anche gusto).
Annie Booth – Lazybody
La cantautrice di Edimburgo Annie Booth è membro dei folk rockers Mt.Doubt e si esibisce spesso dal vivo in chiave completamente acustica, ma in sala di registrazione preferisce farsi accompagnare da una band corposa e agguerrita. Il suo secondo album, Lazybody, è meno diretto e più meditato dell’esordio, An Unforgiving Light, con un suono più pieno e arrangiamenti maggiormente curati. Le sue canzoni sono piene d’atmosfera e la sua voce, che riesce sempre a mantenere tonalità e coloriture che si collocano da qualche parte tra l’esultanza e la malinconia, la rende facilmente distinguibile nel panorama cantautorale scozzese. Gli undici brani di Lazybody non sono facilmente catalogabili e suonano in maniera alquanto eterogenea, ma rimangono coesi grazie alla caratteristica voce della Booth e a una scrittura fatta di melodie delicate e persistenti e ad arrangiamenti accattivanti. L’uso del piano e degli archi, in canzoni come il brillante singolo Cocoon o la dolce Soho, ma anche gli arrangiamenti misuratissimi di brani sopraffini quali Tropic o Waves, ne esaltano la peculiarità vocale, mentre passaggi più nervosi e chitarristici (Nowhere) le permettono di liberare la propria aggressività, evitando di rilegarla tra le folte schiere delle cantautrici indie-folk. Valley, in tal senso è la canzone più emblematica, con il suo andamento sincopato e intenso e il crescendo emotivo e sonoro. Le delicate Embers e Fallow Year chiudono l’album dimostrando, pur con la loro fragilità, tutta la potenza emotiva di Annie Booth. Lazybody è un album che cresce lentamente, ascolto dopo ascolto, e che, con il sedimentarsi dei suoi suoni e delle sue parole nella mia mente, mi è divenuto imprescindibile.
Geese – Projector
Projector è l’esordio di una band di diciannovenni newyorkesi che ammette di aver suonato live solo una decina di volte e il cui background musicale pare si sia formato con lo streaming compulsivo. Ascoltando i nove brani che compongono l’album, non si stenta a credere che i giovanissimi siano stati influenzati dalle sonorità più disparate: c’è, senza dubbio il punk funk, la new wave più oscura, il math-rock una sana spruzzata di noise a ingarbugliare tutto e addirittura qualche velleità prog. Potrebbe sembrare un guazzabuglio presuntuoso e inascoltabile e, invece, a soccorrere gli americani c’è una notevole personalità, una certa misura e un produttore straordinario come Dan Carey. I suoni dei Geese, così, non sono lontani da quelli dei coetanei d’oltreoceano Black Midi e Squid (non per niente prodotti dallo stesso Carey), ma rimangono più accessibili, con la loro maggiore propensione verso le melodie e le canzoni. Con la voce multiforme e eclettica del cantante Cameron Winter, che a volte richiama addirittura mostri sacri come i Talking Heads, brani come Rain Dance, Low Era o Disco risultano assolutamente vincenti e coinvolgenti, mentre una ballata intensa come First World Warrior, pur sembrando uscita da un album diverso, riesce comunque a convincere per la sua spontaneità (e per la magnifica produzione) e Opportunity Is Knocking è una sorta di summa di tutto l’album con le sue sonorità che richiamano quelle dei concittadini Strokes, ma stravolgendole con passaggi strumentali orchestrali, arpeggi di pianoforte distorti e cavalcate chitarristiche parossistiche. Projector è così una vera e propria rivelazione, un album che non solo presenta una band già matura, ma che permette ai Geese di sognare (ancora più) in grande.
Anna B Savage – A Common Turn
Come non si potrebbe definire uno straordinario esordio questo A Common Turn di Anna B Savage? Figlia di due cantanti lirici e nata nella stesso giorno in cui si celebra la morte di Johann Sebastian Bach, l’artista londinese sembrava essersi persa, dopo il promettente debutto, nel 2015, con un e.p. (titolato semplicemente E.P.) prodotto da DM Stith. E, invece, sei anni dopo, ce la ritroviamo con un album, prodotto con perizia e grandissima sobrietà da quel genietto di William Doyle, nelle cui dieci magnifiche composizioni, tese, ansiogene e brutalmente sincere, viene esaltata la voce teatrale e personalissima della Savage e la sua capacità di scrivere melodie e intrecci sonori originali e coinvolgenti. Brani dalla potenza emotiva devastante come BedStuy, Hotel (“I turn the big lights off/ I put my headphones in/ I scroll to Pink Moon/ I hope I fall asleep soon“) e One dimostrano il talento unico e la personalità straripante di un’artista che riesce a mettersi a nudo con estremo coraggio e con risultati esaltanti.
Marta Del Grandi – Until We Fossilize
E proprio vero che nemo propheta in patria. C’è voluta la sempre attenta etichetta inglese Fire Records per portare alle mie orecchie (e mi auguro a quelle di molti altri) l’artista italiana Marta Del Grandi. Il suo album d’esordio per la Fire si chiama Until We Fossilize ed è un album coraggioso e di difficile classificazione: non è certo un lavoro folk, ma neanche un lavoro elettronico, è sperimentale ma anche melodico. La giovane cantautrice italiana pare abbia dei trascorsi nel jazz, ma la sua formazione artistica non traspare dalle otto canzoni che ne compongono il breve e intenso esordio, se non nell’attitudine e nella sua refrattarietà a rientrare in schemi prestabiliti. Il background musicale di Del Grandi si è formata anche grazie a lunghi viaggi in Asia e in America, e l’artista ha risieduto a lungo in Belgio prima di scegliere la natia Italia per incidere l’album. E’ la sua voce, elegante e acuta, maneggiata con straordinaria maestria ma senza inutili virtuosismi (Totally Fine), a caratterizzare tutti i brani, di solito costruiti su un tappeto sonoro di archi e di sottile elettronica. Strumenti organici ed elettronici si fondono perfettamente in sonorità che sfiorano, a volte, la musica da camera (Amethyst), senza, tuttavia, avvicinarne la seriosità e anche il folk è spesso presente nelle composizioni dell’album, ma il contesto è più spesso oscuro, avvicinandosi quasi a derive strumentali post-rock o a sonorità alla Dead Can Dance (Lullaby Firefly). Until We Fossilize è un album umbratile ed elegante, complesso eppure mai sovraccarico o pomposo. Potrebbe a tratti quasi sembrare algido, ma Marta Del Grandi scrive canzoni emotive, fragili e romantiche, senza, però, non cadere mai nel facile errore di dimenticare le sperimentazioni vocali e sonore e qualche elemento dissonante che costringe a tenere alta l’attenzione anche laddove ci si potrebbe perdere nella contemplazione e nell’incanto. Until We Fossilize è un lavoro originale e a tratti commovente, già caratterizzato dalla forte personalità e dal talento della sua artefice. Il futuro non potrà che riservare altre meraviglie.
Hamish Hawk – Heavy Elevator
Per quanto mi riguarda il nome di Hamish Hawk è spuntato letteralmente dal nulla, eppure l’artista scozzese ha già all’attivo due album e questo Heavy Elevator è il suo terzo lavoro, il primo, tuttavia, ad essere stato interamente concepito e inciso con una vera e propria band. Heavy Elevator è un lavoro ambizioso e letterario nel quale viene addirittura citato l’architetto, astronomo e matematico Christopher Wren nello stesso verso in cui si citano i Pulp (nel magnifico singolo The Mauritian Badminton Doubles Champion, 1973): “To write a cathedral, I’ll need a ball-point pen/ It’ll sound like ‘Common People’ sung by Christopher Wren.”.
L’artista scozzese scrive testi pieni di riferimenti culturali, profondi e pieni di ironia, ma non dimentica che è fondamentalmente un musicista e così li accompagna con un pop barocco di squisita fattura, chiaramente memore innanzitutto dei Divine Comedy, ma vicino a tutta la tradizione anglosassone.
Canzoni come il già citato singolo (indimenticabile già dopo pochi ascolti), la briosa, quasi esultante Bakerloo, Unbecoming, o Caterpillar, che rimanda addirittura a Ian McCulloch e ai suoi Echo & The Bunnymen, lasciano subito capire come questo sia un lavoro che ha qualcosa di più, qualcosa di davvero speciale.
Your Ceremony con il suo arrangiamento arioso e elegante, leggermente sporcato dall’elettronica e i suoi cori celestiali, il basso e l’organo che caratterizzano la magnifica New Rhododendrons, l’avvolgente crescendo strumentale e vocale di This, Whatever It Is, Needs Improvements, la delicatezza pop di Daggers dimostrano la versatilità di Hamish Hawk e il suo tocco magico. Heavy Elevator è l’opera di un artista che sta attraversando un momento di grazia e che ne è perfettamente consapevole. Una rivelazione assoluta.
Olivier Rocabois – Olivier Rocabois Goes Too Far
La circostanza che apprezzi sempre di più il pop barocco è un sintomo del mio invecchiamento? O forse sto finalmente maturando? Il francese (bretone, per la precisione) Olivier Rocabois ha subito catturato la mia attenzione con il suo esordito da solista, Olivier Rocabois Goes Too Far, un lavoro ambizioso e articolato nel quale l’artista si muove agile tra pop barocco, appunto, jazz e anche una punta di prog. Se Il vate dell’operazione è senza dubbio McCartney, tanto che l’album prende il titolo da un disco che il buon Paul aveva concepito, ancora nei Beatles, ma mai realizzato, è chiaro che Rocabois abbia incamerando le influenze degli Steely Dan, dei Beach Boys, degli High Llamas, di Bacharach, degli XTC e dei Divine Comedy, ma sia riuscito a mantenere una propria ben definita personalità, tanto da risultare abbastanza lontano, nel risultato, da tutti gli ispiratori. Le nove lunghe canzoni (o mini suites) che compongono l’album risultano arrangiate in maniera impeccabile e inventiva, quasi delirante quanto deliziosa. La voce acuta ma morbida di Rocabois accompagna melodie sottili e arrangiamenti ambiziosissimi che, tuttavia, reggono il peso della loro complessità. A canzoni articolate come High As High o Arise Sir Richard si contrappongono melodie più dirette e immediate quali la dolcissima Tonight I Need (con John Howard), probabilmente il brano più emozionante dell’album, il cui arrangiamento dimostra la maestria dell’artista francese, o Let Me Laugh Like a Drunk Witch. Hometown Boys e I’d Like To Make My Exit With Panache non sfigurerebbero nel repertorio di Bacharach, ma farebbero la loro figura anche in quello dei Divine Comedy, mentre My Wound Started Healing chiude il lavoro con i fuochi d’artificio: per quasi sette minuti gli archi fluiscono eleganti, il pianoforte si libra, la voce si alza cristallina. Olivier Rocabois goes too far è un titolo ironico e, per fortuna, non profetico: non si tratta di un lavoro che crolla sotto il peso delle proprie ambizioni, ma di un’opera creativa e coraggiosa che ci presenta un artista nel pieno della maturità e della consapevolezza e una manciata di brani complessi quanto affascinanti.
Swansea Sound – Live at the Rum Puncheon
Swansea Sound è una band nata durante il lockdown e formata dall’ex Pooh Sticks Hue Williams con Amelia Fletcher (anche lei nei Pooh Sticks, e ex-Talulah Gosh, Heavenly e ora nei The Catenary Wires), Rob Pursey (anch’egli ex-Heavenly e ora The Catenary Wires) e Ian Button e prende il nome da una radio libera gallese che ha chiuso le trasmissioni alla fine degli anni ottanta. Anche il Rum Puncheon, il famigerato pub di Swansea che dà il titolo all’album, ha chiuso decenni fa. Queste premesse chiariscono le caratteristiche del progetto: una vera e propria lettera d’amore, senza alcuna concessione alla nostalgia e alle melensaggini, per la musica indie nel senso più puro del termine. “I heard The Kinks when I was three/ That is my earliest childhood memory” e, ancora “Went to Ramones when I was thirteen / they’re the coolest thing I had ever seen” canta Williams nel brano d’apertura Rock N Roll Void, descrivendo con poche pennellate il proprio viscerale rapporto con la musica. Un amore che, inevitabilmente, porta anche a guardare con una certa rabbia disincantata la situazione attuale: ne nascono brani quali il pop-punk di I Sold My Soul On Ebay , contro i cinici profitti delle piattaforme di musica online, o Corporate Indie Band, un ossimoro che già dice tutto sul contenuto del brano, o, ancora Freedom Of Speech che se la prende con qualche rockstar invecchiata molto male. Non c’è solo rabbia e prese di posizione politiche nell’album e la delicata Pasadena, così come The Pooh Sticks, omaggio di William alla sua vecchia band, suonano più accorate e pacate. Indies Of The World è un inno in pieno stile indiepop alla resistenza: “You gotta fight / Resist over production” cantano Hue e Amelia in quello che è il brano meglio riuscito dell’album. Una chiamata alle armi per la nuova generazione di musicisti indipendenti da parte di chi la storia della musica indie l’ha fatta. O, meglio, da chi la musica indie l’ha inventata! L’album è un vero e proprio manifesto politico indiepop lungo 35 minuti e alimentato da nostalgia, rabbia, umorismo e cuore.
Deep Throat Choir – In Order To Know You
Deep Throat Choir è un collettivo vocale tutto al femminile, formato nel 2013 da Luisa Gerstein e caratterizzato dall’interazione di intricate melodie corali e percussioni. Dopo aver collaborato con numerosi artisti del circuito indipendente, il collettivo ha esordito con Be Ok, album contenente soprattutto interpretazioni di canzoni altrui, che riusciva egregiamente a restituire l’energia che il coro sprigionava dal vivo. Per il nuovo lavoro Gerstein e soci(e) hanno fatto le cose in grande, andando oltre l’uso delle sole voci e percussioni e arricchendo la propria palette sonora con strumenti acustici ed elettronica e, soprattutto, sobbarcandosi l’onere di scrivere tutti i brani. Le composizioni sono il frutto dell’interazione tra tutte le voci del gruppo che, di volta in volta, assurgono a songwriters toccando argomenti ponderosi quali la mascolinità tossica, la tenacia di fronte alle avversità, la determinazione, il dolore e la perdita. E, stavolta, non sono solo la leggiadra ricchezza delle armonie vocali e la potenza dei punti di vista a emergere, ma è anche l’elegante cesellatura degli arrangiamenti a fare di ogni brano una piccola opera d’arte perfettamente miniata in ogni suo dettaglio. Un lavoro etereo e concreto, che raggiunge vette di grazia allo stato puro.
Rachel Love – Picture In Mind
Rachel Love era parte delle Dolly Mixture nel 1978, aveva 15 anni. Pur non avendo mai raggiunto la notorietà la sua band tutta al femminile ha avuto un seguito di culto e quando, un po’ a sorpresa, lo scorso inverno è arrivata Primrose Hill, una canzone dalla dolcezza sconfinata, in tanti hanno gioito per il ritorno sulle scene dell’artista inglese (che, in realtà aveva continuato a fare musica sotto il nome di Spelt con il marito Steve Lovell, ex produttore discografico, purtroppo recentemente scomparso). Ispirato a un dipinto che ritrae Londra dalla cima di una collina , posseduto dai genitori di Rachel dagli anni ’60, Primrose Hill è certamente il fulcro di Picture in Mind, ma anche Down the Line, rivisitazione di un brano delle Dolly Mixture è altrettanto incantevole. Le atmosfere sono di quieta nostalgia per un luogo e un tempo indefiniti ma che ognuno di noi potrebbe identificare nella propria adolescenza (più immaginata che reale, probabilmente). Le sonorità dell’album si potrebbero definire synth-pop, ma con un occhio ben rivolto agli anni 60, alla stregua dei Saint Etienne (The Long Way Round) (del resto Bob Stanley ha pubblicato molti anni fa una raccolta proprio delle Dolly Mixture). Un synth pop, dunque, virato verso sonorità sognanti (Dreaming) e malinconiche (No More), ma che tocca anche arrangiamenti più complessi (Far Away e Borrowed Time), tanto da far venire in mente, in alcuni passaggi, la strana fragile bellezza degli Young Marble Giants. Picture in Mind è il suono di un’estate che svanisce lentamente, di un ricordo che sbiadisce con grazia, di un momento di felicità che non tornerà mai più, ma che ha comunque lasciato dietro di sé una traccia indelebile.
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