Giulio Tomasi per TRISTE©
1) Ski Saigon – Sees the Albatross (Too Good To Be True)

È tutta qui l’essenza del mio planare tra un blog e l’altro in nottate per metà insonni, del mio annotare, cercare e ricercare. Il sacrificio dischiude la meraviglia e viceversa, perché quando scopri album come questi che sembrano generati proprio per ricompensare le tue palpebre allora non puoi che dirti soddisfatto, per quanto vinto dalla fatica elitaria tipica di chi è custode di certi segreti musicali. Si perchè il primo Ski Saigon, uscito nelle ristrettissime sembianze di 150 copie, suona alle orecchie di chi vi si approccia alla stregua di un dogma rivelato. Immaginate una sorta di prodigio nel finale di “Lost In Translation”. Tutto diviene chiaro per voi e per pochissimi altri soltanto. Non servono tuttavia sottotitoli o cervellotiche spiegazioni di sorta. Bastano il rivendicare con fierezza una certa fragilità dreamy, il caracollare fra visioni a occhi chiusi di marca Mercury Rev e il procedere con i suoni, sì in scala di grigi, ma mai perniciosi, per rendere questo debutto l’esperienza musicale più significativa dell’anno trascorso nella quale mi sono imbattuto.
2) Momus – Athenian (Darla/American Patchwork)

La Brexit, Jobim, una carezza verso il cielo in direzione di Françoise Cactus degli Stereo Total, il ritorno ad Atene sulla scena di quel crimine chiamato adolescenza, Karl Kraus… e molto altro ancora. Far convivere tutto questo in un’opera che ha il sapore della magnifica diserzione rispetto ai belligeranti tempi (musicali) moderni non sarebbe stato semplice per chiunque. Qui però viene tirato in ballo Nicholas “Nick” Currie in arte Momus, uno che ha intinto in repeat la sua firma negli almanacchi del pop più oscuro. Dopo aver licenziato album infatti per Él records, Creation e Cherry Red, il 61enne originario di Paisley dimostra con l’ultimo capolavoro per Darla che il genio e la sregolatezza possono percorrere i sentieri di una maturità volteggiando a briglia sciolta in brani demodè. E credetemi l’aggettivo importato d’oltralpe ha il valore di una medaglia per il nostro. Perché basta affacciarsi un attimo sulle sponde delle macerie di quello che un tempo era conosciuto come villaggio globale per capire quanto rifuggire da certi trend, anche solo un’ora, sia cosa buona e giusta.
3) The Reds, Pinks & Purples – Uncommon Weather (Tough Love/Slumberland)

Anche quest’anno Glenn Donaldson finisce nella mia top 10. Potevo parlare di miracolo che si ripete, ma forse avrebbe assunto i connotati di una beffa rispetto a un disco che si apre con un pezzo intitolato ”Don’t Ever Pray in the Church on My Street”. E allora non volendo scomodare prodigi ultraterreni, ma restando fra l’umanità, preme rimarcare come all’interno di quest’ultima aumentino a dismisura i seguaci di The Reds, Pinks and Purples ormai consolidata, quanto immaginaria, triade dell’indie pop odierno. Glenn si ritrova quindi cantare e suonare al cospetto di un audicence sempre più ampia. La presa di coscienza collettiva rispetto all’enorme validità di questo progetto è speculare al modus operandi del suo deus ex machina. Glenn non dissimula i modelli di riferimento, non nega la ciclicità di certi canoni. Lavora bensì di cesello sui suoi miti ed esalta il perpetuarsi di temi e suoni.
4) Ta Toy Boy – Endless Life (Make Me Happy)

Per parlare di questo disco devo giocoforza parlare delle ragioni che mi hanno portato a interrompere la mia breve, ma per me intensissima, esperienza di recensore qui su Triste, fatta esclusione ovviamente la parentesi della top 10 di fine anno. Non riesco più a scrivere di musica con costanza perché quando mi documento su album ho paura di assimilare discernimenti altrui, farli miei, dimenticarli e magari riproporli anche se sotto altra veste, più che una sindrome dell’impostore la chiamerei una sindrome del plagiarista. Con tutta l’umiltà del caso sottolineo poi che una realtà discografica con il passare degli anni maggiormente bulimica diviene difficile per la critica musicale non cadere nei clichè nel raccontare un’opera. Tutto questo per dire che i Ta Toy Boy da Salonicco con la loro wave in bassa fedeltà propongono una formula semplicissima, la cui bellezza ha bisogno di ben pochi arrovellamenti linguistici. Ma, ed è qui che il low-fi si fa pedagogico, c’è nel reiterarsi di modelli precedenti un significativo aggiornamento di concetti ampiamente battuti quasi a dimostrarmi che la sindrome di cui sopra è sorpassabile. C’è tanto da imparare perciò da una band che declama questi versi “The sad boys are back into town, they are back in the town. The sad boys dont know how to how to smile”.
5) The Catenary Wires – Birling Gap (Skep Wax/Shelflife Records)

Suggellare anni e anni di militanza al fronte caldissimo del twee con un’opera dai risvolti politici e farlo regalandoci dieci sfavillanti canzoni dove ti imbatti in un mare magnum di rimandi che partono dai The Kinks e arrivano agli Stereolab. Signore e Signori ecco a voi l’atto terzo dei The Catenary Wires! Heavenly, Talulah Gosh, o per restare ai giorni nostri Swansea Sound, Amelia Fletcher e Rob Pursey hanno condiviso un cospicuo numero di progetti con risultati mai meno che memorabili. Non fa eccezione questa produzione, la cui urgenza espressiva pur ondeggiando dolcemente non ha paura di affrontare tempeste socio-esistenziali. Viviamo un’epoca dove tutto è congeniato per fluire verso lo smarrimento individualista con annessa chiusura a riccio rispetto al prossimo. I “capitani” sopra citati lo sanno bene e la loro risposta a tutto questo non può che essere un disco come “Birling Gap”, una bussola per restare umani.
6) Painted Shrines – Heaven And Holy (Woodsist)

Sempre più asso pigliatutto in questi lidi! Qualcuno fermi Glenn Donaldson! Anzi no…ma che fermarlo, lasciatelo cantare, o meglio per l’occasione lasciatelo produrre, mixare e soprattutto maneggiare chitarre, Casio ecc in un progetto come il suddetto condiviso con Jeremy Earl dei mai troppo venerati Woods. L’opera prima (e dati i risultati si spera non ultima) dei Painted Shrines ha le classiche fattezze in cui il totale diviene più della somma delle parti in causa. Intendiamoci è facile liquidare “Heaven and Holy” parlando di discreti bozzetti jangle-psych pop, in buon numero strumentali. Ma se si va oltre un’aurea di estemporaneità apparente è possibile godere in toto delle bellezze dell’Lp che risiedono nell’essere trascinati poco a poco in vorticosi miraggi fatti di morbide alterazioni sensoriali.
7) Ducktails – Impressions (New Image)

Questo è un disco che annaspa splendidamente nella redenzione. Senza voler processualizzare (non è la sede opportuna) o minimizzare tormenti e vicende personali di Matt Mondanile mi piace immaginare “Impressions” come indicativo di una presa di coscienza. E, se mi permettete di stemperare la tensione, così come il fuoriuscito dai Real Estate si è cosparso il capo di cenere, anche io faccio ammenda per aver pensato fin dal primo ascolto dell’Lp a una massima tratta dall’opera di uno dei miei guilty plaesure cinematografici, nonché autore innominabile fra i miei amici cinefili. “Che cosa ti piace di più veramente nella vita? L’odore delle case dei vecchi”. Bene, direi che la nuova opera del musicista del Jersey ha un fascino dannatamente sclerotizzato, che si addice a quanto sopra. Il cristallizzarsi in retaggi 80’s e la ritrovata serenità, almeno da una prospettiva squisitamente sonica, fanno del disco un continuo susseguirsi di emozioni capaci di condurre verso una nostalgia controllata. Da dove proviene questo benessere insensato nel guardarsi indietro? È stata forse la mano di Ducktails…
8) Liam Kazar – Due North (Mare/Woodsist)

C’è sempre un album così ogni anno. Un Lp tanto accattivante quanto capace di seccare ogni residuo d’inchiostro da spendere al riguardo. Non stiamo parlando di qualcosa di sconvolgente o di innovativo. Come si sarà capito se cercate quel genere di dischi dal sottoscritto siete fuoristrada. Ma vi basterà spostarvi più in là e attingere dalle top 10 fotocopia di critici certamente più competenti, ma ai quali do una pista in fatto di “emotività musicale”. Bene! Pure essendo al cospetto di archeologia sonica “Due North” mi ha lasciato a lungo senza fiato, quando un improvviso spunto per testimoniarvi la bellezza del debut di Liam Kazar è venuto dal ricordo della celebre sit-com “That’70’S Show”. Riscontro fra il lavoro del piccolo schermo, celebre per avere avuto nel cast Ashton Kutcher, e il disco, uscito in combutta fra Mare Record e la (si, sempre lei!) Woodsist, la medesima leggerezza in sincrono con notevoli livelli di arguzia. Risate intelligenti da un lato, canzoni capaci di camuffarsi in mezzo a una playlist di memorabilia a stelle e strisce dall’altro. Il terreno comune? La volontà di premere il tasto play per un’altra visione e per un nuovo ascolto.
9) Grand Drifter – Only Child (Subjanle/Sciopero/Dotto)

Se avete amato “Lost Spring Songs”, l’esordio del già militante negli Yo Yo Mundi Andrea Calvo, non potrete che commuovervi come neanche al cospetto del più bel ricordo d’infanzia dinanzi a questo atto secondo a firma Grand Drifter. “Only Child” è quanto di meglio la penisola abbia prodotto nel 2021 in termini di indie pop. L’Lp tiene testa ad act internazionali blasonati, tanto da meritarsi le attenzioni di addetti ai lavori di un certo livello operanti fuori dall’Italia, come Cloudberryblog e Janglepophub. Determinante in tutto questo è stata la combinazione di molteplici fattori quali una scrittura sempre più raffinata da parte di Calvo, l’empatia che il nostro per mezzo dei suoi pezzi realizza con l’ascoltatore e dulcis in fundo le partecipazioni dei già citati Yo Yo Mundi e di un’altra gloria nostrana ovvero i compagni di scuderia Smile.
10) The Arctic Flow – Lost You Long Ago (Sunday)

È stato praticamente impossibile non sciogliermi come neve al sole durante ogni ascolto dell’ultima fatica di Brian Hancheck meglio conosciuto (ai pochi, ma buonissimi) come The Arctic Flow. Immagino abbiano provato le stesse sensazioni anche in casa Sunday Records. Proprio la storica label, fortunatamente tornata operativa dopo un lungo iato, stampa questo meraviglioso scrigno contenente soffici brandelli di malinconia buoni per ogni collezione autunno-inverno che si rispetti.