Francesco Giordani e Tiziano Casola per TRISTE©
Francesco Giordani: Visto che ci è stato affidato il compito di raccontare ai nostri lettori il nuovo brillante album di Simon Love, suggerisco di iniziare questo dialogo facendo quel che da sempre ci riesce meglio. Ovvero divagare. Nella fattispecie prendo subito una scorciatoia aneddotica e svelo che, non appena ho sentito il singolo Me and You, attratto da quella sua irresistibile, burrosa, fragranza da brioche inglese fatta in casa, non ho potuto fare a meno di pensarti. Ti ho dunque prontamente scritto su Whatsapp, come spesso mi capita di fare in questi casi. Devo dire che non ti sei scomposto più di tanto. Anzi, con mia somma sorpresa, hai subito puntualizzato che non solo conoscevi Simon Love ma che addirittura ne possedevi un disco, avendolo visto dal vivo anni addietro. Prima di porti altre domande, ti chiedo dunque di raccontare questo tuo incontro con Simon Love, che mi pare davvero un segno del destino…
Tiziano Casola: Hai ragione. Ho scoperto Simon Love a un festival inglese nel 2016, l’ultimo festival cui ho assistito tra l’altro (prima di sprofondare in concorsi, studi, lavoro), ma soprattutto il primo festival dove sono andato da solo (aggiungerei, senza di te). Chiaramente a fine festival, se ricordi, ti avevo mandato una mia pagella di tutte le band e Simon Love rientrava nella categoria 4 stelle, perlopiù perché aveva canzoni ben scritte e di cui mi avevano colpito i riferimenti tragicomici a varie rockstar del passato. Comprai pure il suo disco dell’epoca (It Seemed Like a Good Idea at the Time) , molto bello, che conteneva una canzone come Elton John, ma purtroppo non un’altra sua perla, rimasta inedita, dedicata a Joey Ramone, che suonò quel pomeriggio.
Del disco mi piaceva quell’orgoglio coglione tipicamente garage (“you kiss your mother with that mouth?”), che però mi pare si sia un po’ perso con questo nuovo, più citazionista…
F. Vero, questo nuovo disco pare un album di Graham Coxon eppure ha il suo indubbio fascino per me. La tua compagna lo ha definito un disco perfetto per il lunedì sera. Cosa intendeva secondo te?
T. Credo intendesse un disco-diversivo che ti manda al letto col sorriso. Che poi è vero. D’altronde è questo lo scopo di un certo pop di maniera: rassicurarti, ma mantenendo alta l’attenzione nel cogliere i riferimenti, le battutine, i doppi sensi. Oppure, volendola ribaltare, tenere alta la tua attenzione, senza però metterti addosso ansie e piagnistei. “I Radiohead li lasciamo a qualcun altro”. Mi pare che un nostro vecchio istruttore ginnico ci disse così una volta, ti ricordi?
F. Forse non erano i Radiohead ma mi pare che siamo vicinissimi al nucleo poetico del disco di Simon Love…
In una canzone come L-O-T-H-A-R-I-O ritrovo infatti quello sgangherato, un po’ tremolante, estro vignettistico che un Adam Green seppe ai suoi tempi innalzare al rango di Poesia, insegnandoci a trarre materiale mitico di prima mano anche dal nostro vissuto apparentemente più triviale.
Simon Love, come lui, è un piccolo artigiano della canzonetta dolceamara, uno scapigliato amanuense di ritornelli a misura d’uomo del ventunesimo secolo, dunque non troppo grandi né troppo eroici. Non per niente uno dei pezzi più riusciti dichiara I Love Everybody In The Whole Wide World (Except You).
Se senti bene la frase verso la fine viene messa in bocca ad un bambino. Per me non è casuale: farsi amare da un bambino non è così semplice, così come non è semplice scrivere una canzone che anche un bambino possa amare. Oggi forse più di ieri. Probabilmente per riuscire in una simile impresa bisognerebbe saper scrivere canzoni come un bambino le scriverebbe. Restare bambini senza diventare infantili. Adam Green ci riuscì grandiosamente per un certo periodo. Chiedo dunque a te, che di canzoni ne hai scritte parecchie, se oggi sia ancora possibile produrre musica di quel tipo.
T. Mi hai tolto le parole di bocca. Te lo dico con la stessa disposizione d’animo di Vittorio Sgarbi quando, anni fa, si complimentò con Oscar Giannino per i suoi mocassini. Mi hai tolto le parole di bocca perché anche io ho pensato sin da subito ad Adam Green, che per me da ragazzino fu un punto di riferimento importantissimo. Lo spirito è in qualche modo lo stesso, ma chiaramente declinato all’inglese. Di Adam Green consiglio a proposito lo splendido film Aladdin, ma non divaghiamo. La stessa canzone che citi tu mi ha colpito perché ricalca un po’ la scia del disco precedente, ma con un inedito riferimento agli Oasis, qui intesi ormai come un classico conclamato. Dallo stesso pezzo si nota però una certa frettolosità, che permea un po’ tutto il disco e onestamente mi dispiace un po’. L’hai notata anche tu? Ciò non toglie nulla al valore dell’opera, che comunque è alto, anzi, mi pare cresca piano piano con lo scorrere della tracklist, però ecco, mi toglie un senso di compiutezza…
F. Hai ragione e del resto una certa esibita trascuratezza è parte integrante dello stile di questo cantautore. La definirei sprezzatura (leggo nella Treccani: “atteggiamento di studiata noncuranza da parte di chi si sente molto sicuro dei propri mezzi”) se non mi venisse poi in mente la più precisa definizione che Calcutta (altro artista per certi versi accostabile a Simon Love) mi donò, allorché gli domandai perché avesse inserito tutti quegli interludi strumentali nel suo secondo album, non certo lunghissimo. “È naif”, mi disse, rendendomi di colpo più accorto rispetto a quella che non era una mossa casuale ma appunto la conseguenza diretta di un posizionamento stilistico. Quindi l’incompiutezza di alcuni momenti di Love, Sex & Death Etc va intesa secondo me come la manifestazione di un ingegno piacevolmente disordinato, che ama perdersi tra i gingilli del suo piccolo laboratorio mccartneyano. Ma come dici tu il disco cresce nel suo svolgersi e canzoni come Yvonne e I Will Always Love You Anyway (con tanto di applausi) ci mettono poco a conquistare l’orecchio di noi ascoltatori un po’ sentimentali. Alla fine direi che anche questa volta Simon Love la sua pagnotta, o per meglio dire il suo pancake, se lo sia guadagnato. Sei d’accordo?
T. Anche la storia dei finti applausi viene dai Beatles tra l’altro (l’ingresso della voce di Ringo in Sgt. Pepper). È uno stratagemma che io adoro, lo usai pure in un mio vecchio gruppo. Lo usava anche Ariel Pink dal vivo se ti ricordi. Ecco però, Calcutta (col quale conversare è sempre una sabbia mobile di adorabili stronzate) è più un Ariel Pink, certi britannismi gli appartengono poco. D’altronde Latina è una Miami con la sanità pubblica. Yvonne mi ha attratto subito, il titolo mi ricorda un mio vecchio sogno demenziale sul quale non è il caso di dilungarsi. Un’altra differenza con Adam Green è che Love non ha il terreno facilitato dalla formula New York/Velvet Underground (Do Fa Do Fa e poi magari Re- Sol), dunque in qualche modo è costretto ad un revivalismo 60s più inventivo sul piano melodico. La pagnotta se l’è guadagnata? Non so, lo ammetto, però i soldi di un concerto glieli darei volentieri. Dunque sì, si dia pure un pancake a Simon Love.