Francesco Amoroso per TRISTE©
Fino a poco tempo fa ero del tutto inconsapevole (del resto sono molto ignorante in materia) dell’opera della fotografa e artista statunitense Cindy Sherman, famosissima e osannata per i propri autoritratti concettuali.
Il suo lavoro consiste in serie di autoritratti nei quali, abilmente travestita, immortala se stessa, da sola nel suo studio, assumendo molteplici ruoli come autrice, regista, truccatrice, parrucchiera, costumista e modella. L’artista riesce a camuffarsi tanto da non essere riconoscibile, eppure il suo stile è così unico che, guardando le sue fotografie, per quanto non sia facile riconoscere la persona ritratta, è immediatamente evidente l’identità dell’artista che ha scattato le foto. Trovare un’immagine della vera Cindy Sherman è molto raro e le sue opere sono spiazzanti, difficilmente catalogabili e spesso disturbanti.
Ho scoperto le sue opere quando – se non ricordo male con un commento su FB – qualcuno ha paragonato la sua opera a quella di Aldous Harding.
Effettivamente il parallelismo tra l’opera della fotografa statunitense e quella della musicista neozelandese, buttato lì, con estrema nonchalance, in un breve commento di un appassionato, è piuttosto evidente.
“I need the liberty”, canta Harding in Staring At The Henry Moore, uno dei momenti più alti del suo quarto album, Warm Chris.
E, in qualche modo, si può affermare che in quelle quattro parole sia racchiusa e sintetizzata tutta la poetica della giovane artista neozelandese.
A soli trentun’anni Aldous Harding ha già scritto e “dato alle stampe” (dimmi che il “recensore” è nato nel secolo scorso senza dirmi che il recensore è nato nel secolo scorso, direbbero i giovani) tre album straordinari e, con Warm Chris, è bene chiarirlo subito, arriva senza dubbio al quarto centro consecutivo.
Tuttavia – anche questo è opportuno chiarirlo immediatamente, prima di addentrarci nella sua nuova opera – dopo otto anni, quattro album e qualche concerto (e due interviste) chi sia Aldous Harding e dove voglia andare a parare, io ancora non l’ho capito.
Eppure, canzone dopo canzone, disco dopo disco, mi rendo conto che la sua imprevedibilità, il suo essere continuamente spiazzante, essere elusiva, ammiccante e respingente, tenera e smarrita e, immediatamente dopo, aggressiva e sfacciata, è la sua più grande risorsa, una qualità in grado di tenere l’ascoltatore costantemente all’erta, perplesso e affascinato allo stesso tempo.
Non è un caso, quindi, che Warm Chris sia stato accolto in maniera quasi trionfale da tutti gli addetti ai lavori, mentre abbia lasciato sconcertati (e qualche volta delusi) i suoi ormai piuttosto numerosi fan.
Le dieci canzoni che compongono il nuovo album, ancora una volta, come il precedente Designer, prodotto da John Parish e inciso in Galles con gli ormai fidati collaboratori, sono, infatti, caratterizzate da una totale libertà artistica e stilistica.
Come già aveva fatto con Designer e con Party, Harding si allontanano dallo stile folk del magnifico esordio, per poi farvi fugacemente ritorno in alcuni passaggi.
La trasformazione di Hannah (Harding) Topp nel suo doppelgänger Aldous Harding è ormai compiuta da tempo e allora la neozelandese, cui, evidentemente, non piace stare per troppo tempo ferma nello stesso posto (e nello stesso ruolo), decide di sfumare ulteriormente i contorni del suo personaggio e renderlo ancora più sfuggente.
La voce di Aldous Harding – sempre incline, anche in passato a repentini e inaspettati cambi di tono – è più camaleontica che mai. Passa da un dolce cantilena a picchi drammatici in un istante, si permette accenti diversi senza sembrare ridicola (o, meglio, accettando di essere ridicola e convincendoci che anche di momenti ridicoli può essere fatta l’arte: se non l’ha già fatto, prima o poi la vedremo in qualche video con i baffi di Salvador Dalì).
Ed è questa voce (queste voci?) che caratterizza in maniera chiarissima Warm Chris: sempre posizionata in primissimo piano, spesso doppiata e accompagnata da (una diversa versione di) se stessa, si contrappone alla deliberata semplicità degli arrangiamenti.
Di solito sono il piano o la chitarra acustica a essere l’asse portante delle canzoni, accompagnate dall’organo, dal banjo o dal sassofono. Anche le ritmiche sono discrete e la batteria è utilizzata con estrema parsimonia, eppure non mancano le melodie che, in brani quali Fever, Lawn o Tick Tock, non sono mai state così coinvolgenti e pop.
Ennui, Warm Chris, She’ll Be Coming Round The Mountain e Bubble offrono, invece, i passaggi più genuinamente folk e languidi dell’album ma, anche qui, non ci si può rilassare, perché la sorpresa è sempre dietro l’angolo.
Modificare la propria voce fino a renderla irriconoscibile (in Lawn sembra cantare dopo aver inalato un intero palloncino pieno di elio), passare dal dramma alla farsa in poche battute (Leathery Whip – con la partecipazione di Jason Williamson dei Sleaford Mods – che alterna umori apocalittici e inflessioni da cartoon, Nico o Vashti Bunyan a Joanna Newsom o, meglio, a Alvin e i suoi chipmunks, ne è la prova più concreta ed evidente), concedersi arrangiamenti (e vocalità) degne di Neil Young (She’ll Be Coming Round The Mountain) e poi emulare – anche nell’accento! – i Gorky’s Zygotic Mynci (Passion Baby), ricorrere all’umorismo e alla sfrontatezza per dissimulare dolcezza e turbamento, sono tutti aspetti di una creatività liberata che permettono ad Aldous Harding di tenere costantemente viva l’attenzione dell’ascoltatore.
Non so chi sia Hannah Topp (e del resto è giusto che sia così), ma comincio ad avere un’idea su chi possa essere Aldous Harding.
Aldous Harding è un’artista che entra in scena, ormai senza paura, fiera e orgogliosa delle mille sfumature della sua poliedrica e quasi zelighiana personalità artistica, e fa le sue cose (certo la traduzione italiana non rende altrettanto audace e coraggiosa l’affermazione, ma dobbiamo accontentarci)!
Del resto “If you’re not for me, guess I am not for you”, canta con infantile falsetto in Lawn, chiarendo, per l’ennesima volta, la propria volontà di non dare peso alcuno alle aspettative altrui.
Se una volta dichiarava senza mezzi termini che la propria musica traeva ispirazione da una paura astratta e indeterminata, adesso sembra piuttosto chiaro che Harding si stia divertendo e si senta finalmente libera di accrescere la sua già ampia palette emotiva anche con elementi giocosi che, ben lungi dal renderla meno seria, aggiungono profondità e spessore alla sua proposta artistica.
Come si diceva per Cindy Sherman, trovare in una canzone la vera (?) Aldous Harding è molto difficile e le sue opere sono spiazzanti, difficilmente catalogabili e spesso disturbanti.
Ma in fondo perché preoccuparsene?
Spiazzami, ma di musica saziami!
Pingback: Shirley Hurt – Shirley Hurt | Indie Sunset in Rome
Pingback: Le firme di TRISTE©: il 2022 di Tiziano Casola | Indie Sunset in Rome
Pingback: Le firme di TRISTE©: il 2022 di Peppe Trotta | Indie Sunset in Rome
Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2022 | Indie Sunset in Rome
Pingback: Lucinda Chua – YIAN | Indie Sunset in Rome