Peppe Trotta per TRISTE©
Metti una sera a cena un gruppo di amici di vecchia data che faceva musica insieme oltre un decennio fa.
Chiacchierando si torna inevitabilmente al passato in comune e ci si chiede come sarebbe suonare insieme oggi.
Ecco all’improvviso l’idea di riprendere da dove tutto si era interrotto e ripartire alla luce delle diverse esperienze accumulate.
Nasce così il terzo album dei Seabear dopo uno iato di ben dodici anni che ha visto ciascuno dei componenti del collettivo islandese attivo nelle rispettive carriere soliste o in altri progetti condivisi.
Diciamolo subito, al di là di alcune sfumature e sonorità derivanti da queste fertili attività ormai non più definibili collaterali, non c’è nulla di nuovo sotto il sole e la cosa non rappresenta assolutamente un difetto!
Sindri e soci sono in ottima forma e lo dimostrano subito piazzando in apertura un trittico di canzoni brillanti da “amore al primo ascolto”.
Parade col suo folk corale che mette in evidenza un dialogo impeccabile tra chitarre, piano e archi sostenuto da una sezione ritmica presente ma mai ingombrante si impone fin dal primo ascolto. La melodia è immediata ma non banale, rifinita con cura e i suoi ingredienti – virati su incalzanti coordinate indie-pop – tornano nella successiva Running Into A Wall trovando poi la perfetta quadratura nell’irresistibile Waterphone, sicuramente la traccia più trascinante dell’album.
Lungo questo diario emozionale fatto di appunti sparsi sulla vita e sui sentimenti non mancano episodi più intimi (We Could Do Everything, Out Of Time) in cui riemerge maggiormente il versante cantautorale del marchio Seabear, quello che abbiamo imparato ad amare soprattutto attraverso We Built A Fire.
E improvvise impennate pop – come la conclusiva Oslo – che testimoniamo la volontà di battere strade in parte differenti che ci auguriamo siano il segnale della volontà di ridare costanza ad un ensemble che ha segnato a suo modo la storia recente della musica islandese.
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