Tiziano Casola per TRISTE©
Quest’anno gioco di anticipo: non siamo ancora alla metà di dicembre e già preparo una classifica delle migliori uscite del 2022. E siamo chiari, non è facile. Perché? Perché parliamo di dodici mesi di vacche grasse, signori. Questo 2022 è stato, per quanto mi riguarda, un’annata di dischi non solo di tutto rispetto, ma anche qualcosa di più.
Partiamo dall’alto e diciamolo subito, il colpaccio lo hanno fatto gli Arctic Monkeys con il loro The Car (recensito su queste pagine da me e Francesco Giordani, qualche tempo fa), che senza paura dichiaro essere il capolavoro dei quattro di Sheffield, insieme, ovviamente, al disco d’esordio leggendario di ormai 17 (sì, diciassette) anni fa. Novello Abbey Road, tutto moquette e camicie slacciate, The Car è il primo album, dopo tanti anni, ad avermi fatto letteralmente saltare sulla sedia, già dall’attacco iperteso di There’d better be a Mirrorball. Cantori di tutti i locali di provincia con il perlinato ai muri, involontari evocatori di Fernet Branca e di tutte le sigarette nazionali che non ho mai fumato, Turner, Cook, O’Malley, Helders, la fanno in testa a tutti – ma piscia di velluto, per citare ancora Francesco Giordani – e il 2022 si tatua il loro nome da qualche parte. Io gli sono grato, e mi conforta sapere di non essere stato l’unico.
Gli Arctic Monkeys non sono però soli sulla vetta della mia classifica, perché di fianco a loro, anzi forse un gradino più su, ma su un piano più soggettivo, ci sono i Breathless, con il loro See Those Colours Fly. Arrivato alle mie orecchie qualche mese prima, lo confesso, è stato il primo disco della band che io abbia mai sentito. Melodicamente inattaccabile, ho sin da subito percepito See Those Colours Fly come un album ‘ispirato’. Nel senso che non riesco a immaginare la stesura di queste canzoni come strettamente progettuale, ma soltanto come frutto delle prove di una band che si riunisce per suonare. Quegli arrangiamenti così stiracchiati, di chitarre spennellate nello spazio, credo si possano fare solo così: tutti insieme in una stanza, ovvero non davanti a qualche software, con le battute e la struttura della canzone da riempire e sistemare. Poi chi lo sa, magari mi sbaglio, ma questa è la sensazione che mi è arrivata. La sensazione cioè, di un disco per niente ‘quadrato’ o meccanico, ma – finalmente – dinamico. Dico ‘finalmente’, perché è da troppo tempo che non se ne sentono di dischi così fluttuanti e svincolati dai metronomi e dalla stupida esigenza di adattare la musica suonata ai limiti della produzione elettronica. Se The Car è sotto gli occhi di tutti, See Those Colours Fly dei Breathless è per me il grande capolavoro nascosto del 2022. Probabilmente perché, senza volerlo, mi apre un’infinità di ricordi dolce-amari (mi ricorda ad esempio questi new wavers rinvenuti anni fa grazie al web), ma che mi avrebbe conquistato forse lo avevo capito già dalla splendida copertina.
Un posto speciale nel mio 2022 lo ha avuto poi sicuramente lo splendido If My Wife New I’d Be Dead di CMAT, scoperto proprio su queste pagine grazie alla recensione di Giacomo Mazzilli. Disco robustissimo, fatto solo di melodie country-pop memorabili e canzoni che ti si avvinghiano al cervello. La prima traccia, Nashville, dice già tutto. Mi ha teneramente riportato alla mente quando, negli anni duemila, Lily Allen riprendeva quel famoso videoclip di Dolly Parton (la canzone era Not Fair, all’epoca l’avrete incrociata su Mtv un triliardo di volte). Oltre alla quella sua voce gallinacea da popstar rurale (scopro ora dal web che è irlandese, non di qualche stato americano del sud, ma poco cambia), ci tengo a dirlo, del disco di CMAT, ho apprezzato molto le batterie. Non hanno niente di eclatante, sia chiaro, anzi, per quel che mi riguarda potrebbero pure essere fatte con qualche plug in, ma hanno un suono così giusto che me ne sono innamorato. Voglio un pop che sia sempre così.
Ho poi amato particolarmente, in ordine sparso:
l’ultimo lavoro di Pete Doherty (con Frédéric Lo), contenente la francesissima The Fantasy Life Of Poetry & Crime, capolavoro di songwriting e al contempo manifesto poetico dell’ormai sempre più grasso libertino.
Accade di Francesco Bianconi, disco di cover per me dal sapore piacevolmente cimiteriale, come d’altronde tutta la migliore canzone centro-italiana, da Siberia ad Annarella.
Il sorprendente album delle Los Bitchos, che mi porta a chiedermi se il miglior modo di innovare la musica con chitarre non sia proprio l’eliminare la voce, rendendola libera dall’obbligo di dire o cantare qualcosa. Per quanto mi riguarda, un disco intrigantissimo, di quelli in cui ti penti di non aver potuto suonare qualcosa tu.
A Bit of Previous dei Belle and Sebastian, al quale forse dovrei qualche ascolto in più, un ottimo disco passato fin troppo in sordina.
Sono poi rimasto colpito da You Had a Kind Face, raccolta dei Butcher Boy e, per me, primo incontro con la band. Una band ‘indie-pop’ a quanto pare, ma che alle mie orecchie continua a suonare accostabile ai deliri apocalittici di Sol Invictus e simili.
Per un periodo mi ero invaghito del disco dei Seabear, ma ora non mi pare di averne più alcun ricordo, forse merita una ripassata. Così come l’ultima fatica dei Big Thief, di cui ho troppe volte rimandato un ascolto attento. Male, perché in quest’ultimo caso parliamo di fuoriclasse, cosa che a me era parsa subito chiara quando per la prima volta, anni fai, mi capitò di ascoltare Shark Smile da un amico.
Da recuperare entro Capodanno? Sicuramente The Reds, Pinks And Purples e Aldous Harding, per i quali ho fin troppo procrastinato. Ma anche Michael Rault (terzo album omonimo), novello George Harrison canadese, e tali Mapache (Roscoe’s Dream), da poco scoperti grazie a un amico. DI questi ultimi, provate la loro Man and Woman e ditemi se non si meritano un post-it sul frigo.