Francesco Giordani per TRISTE©
Prima di salutare lettrici e lettori e tuffarmi nella meritata tregua agostana -troppe ne abbiamo avute anche quest’anno, fra varianti “omega”, guerre mondiali sfiorate, crisi di governo al solito puntuali come un vitalizio e non è neppure finita… -, mi piace raccomandare, a mo’ di compito per le vacanze delle nostre orecchie, l’ascolto di Fear Fear, secondo album dei Working Men’s Club.
La band di Sydney Minsky-Sargeant aveva catturato la mia attenzione già all’epoca dei primissimi singoli (Bad Blood/Suburban Heights), confermando poi le sue notevoli potenzialità con l’esordio omonimo del 2020. Un lavoro molto stratificato, barocco, a posteriori inevitabilmente confuso sulla direzione da scegliere e seguire, che tendeva a documentare una transizione/metamorfosi in atto più che un approdo di stile vero e proprio.
Ciò che due anni fa poteva ancora apparire come l’ineffabile prologo di una band che ne conteneva, in embrione, almeno altre dieci (tante quante le tracce incluse nell’esordio), si solidifica e cristallizza, nel nuovo Fear Fear, in una fisionomia dai contorni più definiti. Lo si intuisce subito dai bordoni di 19, che si fanno ben presto articolazione ritmica, melodia seducente e infine lirico affresco cyber-punk, in bilico fra Blade Runner, primi Depeche Mode e smaliziato revival new wave targato LCD Soudsystem. Degna, eloquentissima, parte per il tutto, come si suol dire.
A dominare il resto del lavoro sono infatti plumbee atmosfere sci-fi, cesellate in punta di synth e drum machine, con un evidente gusto (oggi inevitabilmente, vezzosamente rétro) per l’artificiale, il macchinico, il computeristico (le sinapsi eccitate di Heart Attack, la caracollante robot dance di Money is Mine e Ploys, da godere anche nel “rework” di Erol Alkan, lo scricchiolare di tessuti sintetici elettrificati in botta d’anfetamine di Rapture). Non mancano neppure generose impennate romantiche in odor dei migliori cosmo-drammi bowiani (Circumference e Cut ne costituiscono la sintesi suprema). Fino all’apocalittico inneggiare della conclusiva, favolosa The Last One, la cui straniante litania riporta le lancette di uno spazio-tempo ormai collassato in sé stesso all’ora X dei Primal Scream di XTRMNTR.
In una scena inglese ancora saldamente orientata da estetiche neo-punk e hardcore o al limite avant-jazz, i Working Men’s Club si distinguono felicemente per le loro singolari quanto profonde passioni per kraut rock, new wave, techno e industrial, per una frequentazione non scolastica né blandamente imitativa del primigenio, fiammeggiante suono sheffieldiano di Cabaret Voltaire, Clock DVA, Human League, per quel loro sguardo avidamente affondato tra le pieghe del migliore catalogo Factory Records. Uno sguardo che mette probabilmente la band dello Yorkshire in intima relazione con gruppi della precedente generazione britannica come Klaxons, Late of The Pier, Factory Floor e Horrors (di cui paiono i più credibili eredi), aprendone il lascito a possibilità espressive nuove, imprevedibili e, proprio per questo, tanto più emozionanti.