Francesco Giordani per TRISTE©
In quanto “diarista” musicale e avendo per di più letto sulle pagine di questo sito, a proposito di If You’re Feeling Sinister, che “ogni album che abbiamo amato, di solito, è legato a un momento specifico della nostra esistenza, ne costituisce la colonna sonora” (parole che firmerei, se necessario, con il sangue), mi sento autorizzato a raccontarvi la storia che segue.
L’ottobre scorso, malgrado tutte le mie ipocondriache precauzioni e scrupolosissime profilassi sanitarie, ho contratto il virus malefico e innominabile che comincia per C. Nulla di grave per fortuna: tre canonici giorni di febbre alta come non mi capitava con ogni probabilità dalle elementari, un coinquilino-infermiere contagiato in forma lieve, qualche film su Prime Video (entrambi bellissimi quanto poco consoni al momento: Soldado e Midsommar), tachipirina mille ad addolcire pure il caffellatte, Topolino come lettura occasionalmente defatigante, tanto brodo.
Tutto sin troppo liscio, se non fosse stato per un’improvvisa quanto implacabile infiammazione alla base della nuca (cervicale?), ben presto evolutasi in un’emicrania paragonabile solo ad un chiodo di metallo incandescente conficcato a martellate in mezzo alla fronte. Qualcosa di semplicemente sleale, maschino, non affrontabile.
Ebbene, quando ero ormai prossimo a capitolare sotto le raffiche di un dolore che mi attraversava ortogonalmente la testa con l’intensità di una scossa elettrica sempre più forte, il nuovo disco delle Big Moon, Here is Everything, è giunto in mio provvidenziale soccorso. Potendo di fatto contare unicamente sul movimento incerto delle dita della mia mano destra, ho attivato con un ultimo sforzo il lettore del telefono, selezionando quasi ad occhi chiusi la prima traccia del disco, Two Lines. Poi, come il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh mi ha insegnato nel suo manuale di meditazione “Il Miracolo della Presenza Mentale”, mi sono aggrappato anima e corpo a quella che poteva sembrare in quel momento, data la situazione disperata, una risorsa tanto labile quanto priva di realtà, ovvero la mia attenzione.
Seguendo le linee melodiche di Two Lines, abbandonandomi al graduale stratificarsi di voci e strumenti di Wide Eyes o alla forma perfettamente cesellata, elicoidale di Daydremer (che non mi stancherei mai di percorrere e ripercorrere), coprendo il brusio acuto della malattia con il suono carezzevole e balsamico di Satellite, ho pian piano addomesticato la furia selvaggia del mio dolore, l’ho fatto cadere in un dolce stordimento ipnotico, per poi scioglierlo nell’abbraccio di un sonno profondo, carico di sogni.
Potrei dirvi che Here is Everything è uno dei dischi pop più ispirati dell’anno, che è bello come il precedente (e sottovalutatissimo) Walking Like We Do ma più ricco e complesso, che è stato composto e registrato in buona parte mentre la cantante Juliette Jackson diventava mamma (molte canzoni parlano di questo ma basta guardare la stupenda copertina), che Daydreamer e Trouble non stancano mai e mettono anzi voglia di risentirle subito, che tutto in questo album, per rubare altre parole di questo sito, “mi ha dato l’opportunità di percepire l’entusiasmo di chi lo ha suonato.”
Vi dirò invece che questo disco mi ha aiutato ad affrontare una delle emicranie più atroci della mia vita e tanto mi basta per amarlo e ricordarlo per sempre. Here is Everything è del resto un’opera che guada al bicchiere mezzo pieno della vita, dell’essere in vita e del venire alla vita, che è nato da una nascita, letteralmente, mentre l’aria che si respirava tutt’intorno non era esattamente delle più incoraggianti.
Qualcosa del suo spirito deve essermi in qualche modo “arrivato” mentre lo ascoltavo. Di quel qualcosa e, va da sé, di tutta la bella musica sinora creata, sono grato alle Big Moon con tutto il mio cuore. Anzi, se in futuro la band dovesse aver bisogno di un testimonial per avvalorare le doti curative delle sue canzoni mi metto sin d’ora a totale disposizione…
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