
Francesco Amoroso per TRISTE©
“Not only has there never before been a society so obsessed with the cultural artifacts of its immediate past, but there has never before been a society that is able to access the immediate past so easily and so copiously.”
(Simon Reynolds – Retromania)
Sostiene Simon Reynolds, in quello che -senza dubbio- è il saggio più importante per comprendere il mondo della musica “leggera” dell’ultimo quarto di secolo- che l’era pop in cui viviamo adora tutto ciò che è retrò e commemorativo. La musica pop(ular) in passato creava un senso di speranza, continua Reynolds, era proiettata verso il futuro e produceva movimenti innovativi come la psichedelia negli anni 60, il post punk negli anni 70, l’hip-hop negli anni 80 e la rave-culture negli anni 90. La musica degli anni Duemila, invece, è stata prima minacciata, poi spodestata, infine annientata dal passato. E, se all’inizio il problema era soprattutto industriale – revival, ristampe, cofanetti, edizioni rimasterizzate, reunion di band, pubblicazione di biografie, memoir e documentari- da molto tempo ormai è una questione d’ispirazione: invece di produrre nuova musica per esprimere se stessi, i giovani artisti e le band esordienti sono saldamente ancorati alla musica del passato. Ne siamo rimasti invischiati tutti.
Non è mai esistita un periodo storico così innamorato dei prodotti culturali del passato. E se Reynolds, da sociologo, critico musicale e filosofo, si chiede se sia la nostalgia a bloccare la capacità culturale di guardare avanti oppure se è la nostra cultura che, avendo smesso di progredire, ci costringe a concentrare l’attenzione su epoche passate, io non ho grandi strumenti per comprendere e per districarmi tra questa messe di ristampe, revival, rimasterizzazioni e chi più ne ha più ne metta.
Ricordate cosa cantavano, con una certa lungimiranza gli Smiths nel 1987, con una certa preveggenza?: “At the record company meeting/ On their hands – a dead star/ And oh, the plans they weave/ And oh, the sickening greed… / Re-issue! Re-package! Re-package!/ Re-evaluate the songs/ Double-pack with a photograph/ Extra track (and a tacky badge)“
Non mi è ben chiaro neanche come, in tutta questa temperie culturale e artistica, si possa inquadrare la strana e sorprendente storia di Robbi Curtice, ma ho la netta sensazione che abbia molto a che vedervi e che sia interessante anche perché costituisce una sorta di corto circuito della retromania.
Ma partiamo dall’inizio.
Negli anni sessanta dello scorso secolo, il giovane Robbi Curtice, aspirante musicista e compositore inglese, incide un singolo (The Soul Of A Man/ When Diana Paints The Picture) e un altro paio di brani che, tuttavia, non gli fruttano alcun successo. Così, messe da parte le sue ambizioni, decide di imbarcarsi con la giovane moglie verso Cipro, dove si ferma a fare l’insegnante per oltre trent’anni (utilizzando il suo vero nome, naturalmente: Rob Ashmore).
La storia musicale di Robbi sarebbe potuta finire lì.
Magari il Prof. Ashmore avrà raccontato a qualcuno dei suoi alunni del suo passato di wannabe popstar, magari a un barbecue -durante il quale aveva alzato un po’ il gomito- avrà sostenuto che sarebbe potuto essere più famoso dei Beatles, tra le risate divertite degli astanti. Oppure no.
Quello che accade per certo, invece, è che, nel 2007, a una quarantina d’anni dall’incisione di quei brani, il regista francese Serge Bozon, andando alla ricerca della musica per accompagnare i titoli di coda del suo film “La France”, si imbatta, grazie al suo consulente artistico, in una compilation svedese di oscuro pop vintage, Fading Yellow 4.
Tra le tante canzoni contenute in quella raccolta, Bozon rimane colpito da Gospel Lane, brano firmato dalla sconosciuta coppia Curtice-Payne, e decide di utilizzarlo per i titoli di coda del suo film.
E’ proprio in questo momento che nella storia di Robbi Curtice entra in gioco la retromania. Perché non fosse per la retromania imperante, probabilmente il regista francese si sarebbe fermato qui. Ma, circondato da un delirio di revival, ristampe e riscoperte, Bozon pensa bene di mettersi in viaggio con l’amico e consulente musicale Benjamin Esdraffo, grande fan della musica garage americana e del Northern Soul, per ritrovare Robbi Curtice.
Una volta trovatolo, però, evidentemente si rende conto che Curtice non ha un corposo per quanto oscuro back-catalogue da cui tirare fuori una clamorosa nugget from the past, e così, senza perdersi d’animo, invita Robbi di pubblicare, con l’aiuto di Esdraffo, un vero e proprio album d’esordio.
A soli 55 anni dalle sue prime canzoni.
Non è dato di sapere qual è stata la reazione del Prof. Ashmore, né se l’insegnante avesse già alcune composizioni nel cassetto. Sta di fatto che, ascoltando i sette brani che compongono Nothing To Write Home About, (titolo straordinariamente adatto al lungo esilio di Curtice), ci si trova avvinti in una specie di vortice spazio temporale, degno della trama di un cinefumetto Marvel.
Non è più chiaro se ci si trovi di fronte a vecchie registrazioni remasterizzate o a brani nuovi, ma fortemente influenzati da passato, né se chi canta sia un ventenne che ha ascoltato i classici dei sixties a più non posso (c’è più di un punto di contatto sonoro con il magnifico Better Days di Alex Pester, per esempio), o un ex insegnate che, facendo due calcoli, dovrebbe aver superato la settantina. Siamo in una macchina del tempo che ci ha riportato nei sixties? Oppure questa è musica che proviene dai sixties grazie a una macchina del tempo?
Il timbro vocale non lascia trasparire l’età del performer, la maestria negli arrangiamenti di Esdaffro rimane in bilico tra nostalgia e “contraffazione” vintage.
Passando da brani deliziosi, pieni di malinconia, trasudanti Carnaby Street, double decker bus e cabine telefoniche rosse, quali Seven Years Later o Pick Up The Phone, per arrivare alla fantastica title track, imbattendosi in una 1943 che potrebbe essere un’outtake o una b-side del primissimo Bowie, o in One Man, che sembra uscita dalla penna di un altro outsider dell’epoca (ma un po’ più fortunato) come John Howard, nulla ci permette di capire che queste sono canzoni nuove, scritte e incise nel 2023 e non pepite d’oro nascoste in un forziere sepolto una cinquantina d’anni fa da un musicista talentuoso e folle. Se aggiungiamo che Carrie’s World è una piccola gemma pop che trasuda psichedelia (quella dei primissimi sessanta inglesi), e Divided City è una delicatissima ballata glam (che potrebbe far parte del catalogo di Paul Roland), allora il quadro è davvero completo.
Non so se Robbi Curtice inciderà ancora musica in futuro, né se da questa storia il regista francese Serge Bozon ha intenzione di trarre un documentario o una fiction (sulla scia di Searching for Sugar Man). Quello che conta, adesso, è che il corto circuito culturale dovuto a quella retromania, che di solito minaccia di mettere una pietra tombale sulla creatività (non solo musicale), ha, questa volta, prodotto un piccolo, splendente e succinto condensato di squisitezze british, che potremo goderci a lungo, senza farci troppe domande e con buona pace di tutte le implicazioni socio-culturali connesse.
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