Blur – The Ballad of Darren

Ammettiamolo. Questo disco avrebbe potuto intitolarsi The Ballad of Damon. Eppure il “narcisist” Albarn ha scelto diversamente, preferendo intestare la sua ballata ad un certo Darren che, si apprende, altri non è che Darren “Smoggy” Evans ovvero l’ex guardia del corpo della band e tutt’oggi collaboratore dello stesso Albarn.

Non il charmeless man, “educated the expensive way” che all’occorrenza sapeva distinguere un chiaretto da un beaujolais, nell’omonima canzone, bensì il suo fratello invisibile, l’uomo comune, the Universal in persona, uno dei tanti abitanti di questo interminabile tardo capitalismo che hanno appena letto sul giornale (o più probabilmente su Facebook) che domani sarà il loro giorno fortunato, che con un pizzico di fortunata potranno comprare il biglietto vincente della lotteria nazionale della felicità, riscattando il sogno sempre più sbiadito di una Grande Fuga dalla vita in finale ricompensa per quanto si è dovuto sopportare ogni santissimo giorno.

Quest’uomo qualunque, ricevuto direttamente dalle mani del glorioso Ray Davies e con la massima prontezza trascritto, arricchito, perfezionato in mutevole calligrafia nelle tante memorabili pagine di un taccuino poetico lungo ormai trent’anni, è da sempre l’(anti)eroe indiscusso dell’epopea bluriana. L’eco delle sue imprese risuona oggi anche in quest’ennesima, struggente, ballata che gli Inglesi gli tributano e che ha forza ed ispirazione sufficienti per restituircelo perfettamente intatto nelle sue paure, nelle sue manie, nelle sue sempre rocambolesche crisi di nervi ma soprattutto nella sua irresistibile, fragilissima, non di rado comica, sempre profondamente umana, tenerezza.

Tuttavia, tornando al nostro punto di partenza, nella Ballad of Darren si dà un piccolo coup de théâtre, un turning point che è anche un point of no return. L’eroe si volta infatti nella nostra direzione, si “sporge” pericolosamente dalle nuove canzoni e da esse ci guarda, svelandoci infine il suo volto. Non un volto qualsiasi ma, si sarà oramai capito, il volto, reale, senza trucco, dei Blur stessi, che si ritrovano di colpo catapultati (forse per la prima volta in maniera così, come dire… brusca, immediata), dalla testa ai piedi, dentro la propria opera come in un autoritratto a figura intera. Darren c’est moi, sembra sussurrarci Albarn dal primo all’ultimo minuto della sua ballata. Uomini comuni -o comuni mortali dir si voglia-, siamo infine diventati pure noi, sembra spiegarci il Londinese, sostenuto da una band che, alle soglie di un’incipiente senilità, si riscopre oggi forse un po’ più frastornata di ieri, arrochita dal peso degli anni e delle ordinarie tribolazioni di ogni giorno. Eppure, malgrado tutto, ancora abbastanza viva per poterlo credibilmente raccontare. Esattamente come noi faremmo al posto suo.

Credo sia questa specifica sensazione, condivisa da band e fans, di appartenere ad un comune destino (o ad un destino comune) di vulnerabilità e resistenza, a rendere le canzoni dell’ultimo album degli Inglesi così toccanti, vere, spesso commoventi. I Blur sono invecchiati insieme al loro pubblico, con esso oggi condividono rughe, crepe, ammaccature, ricordi, unitamente alla voglia di continuare a giocare con l’arte e con la vita. Lo cantano loro stessi nella superlativa The Heights, “I gave a lot of heart, so did you/ Standing in the back row, this one is for you”, lo ribadiscono nella già classica The Narcisist, “I’ll be shining light in your eyes / You’ll probably shine it back on me / But I won’t fall this time”.

I ritmi briosi di Barbaric, l’andatura piacevolmente ciondolante di Russian Strings, l’epica implosa della dolceamara Goodbye Albert e quella più metafisica della sognante Avalon, descrivono il perimetro di un disco che è soprattutto un dialogo amoroso fra l’artista e il suo pubblico, un patto d’amicizia fra i due che si rinnova nel tempo, protetto dalla promessa di non dimenticare nulla di ciò che si è vissuto insieme.
Era dai tempi di 13 del resto che la band non suonava e incideva con un simile affiatamento (merito anche del valoroso James Ford, già al fianco di Albarn ai tempi del decisivo The Now Now e più recentemente produttore di Graham Coxon per il progetto the WAEVE). Se però 13 era a suo modo un disco di commiato, The Ballad of Darren somiglia piuttosto ad una sorta di encore lungo quanto un album intero, rievocando la pura magia di certi bis durante i quali chi sta sopra il palco e chi è sotto di esso diventano improvvisamente la stessa persona:
All the people
So many people
And they all go hand-in-hand
Hand-in-hand through their parklife
Know what I mean?

Per l’appunto, capite cosa intendo?

3 pensieri su “Blur – The Ballad of Darren

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