Slowdive – Everything Is Alive

Francesco Amoroso per TRISTE©

“…è una caduta solo se pensi al finale.
Altrimenti si chiama volare.”
(Jason Mott – Che Razza Di Libro)

Con l’età ho sviluppato un’avversione sempre più tenace nei confronti dei tuffi. Da ragazzino, pur con la sempre presente prudenza (e una già latente acrofobia), tuffarmi era un’attività grandemente emozionante, che mi dava ogni volta piccoli e piacevoli brividi: il salto nel vuoto, la sfida (persa in partenza, ma poco conta) alla gravità, un breve volo e poi il contatto con l’acqua, la carezza (o lo schiaffo…) sulle membra, la sensazione di essere avviluppati in un morbido abbraccio. Ora, invece, prima di tuffarmi, riesco a pensare solo al terrificante senso di vuoto che proverò nel momento in cui non avrò più i piedi saldamente poggiati per terra. Penso, purtroppo, alla caduta e non mi godo il volo.
Il tuffo dovrebbe, invece, fornire un doppio piacere: quello del volo e quello della successiva immersione.

Di tuffi, voli e immersioni gli Slowdive, sin dalla scelta del loro nome, hanno dimostrato di saperne abbastanza.
Formatisi a Reading nel 1989 e scioltisi nel 1995, dopo tre magnifici -e, per lo più, bistrattati- album, e ricostituitisi nel 2014, dopo quasi vent’anni di inattività, hanno attraversato gli ultimi trentacinque anni di storia della musica come se vivessero perennemente sul vagone di una montagna russa emozionale: osannati dalla critica (e amatissimi dal pubblico) dopo l’uscita dei loro primi EP, vennero, poi, quasi immediatamente stroncati già al momento dell’esordio sulla lunga distanza, quel Just For A Day che, etichettato dalle riviste inglesi come “triste e privo di idee” e “terribile delusione”, è visto oramai, insieme al successivo (e ancor più avversato dalla stampa) Suvlaki, come uno dei cardini dello shoegaze. E che dire del successivo Pygmailon? Un album che non verrà mai suonato dal vivo e a cui ci si riferirà per decenni come a una sorta di suicidio consapevole (non solo commerciale) da parte di una band che non aveva ormai nulla da dire e che, invece, è adesso celebrato come il coraggioso e riuscito azzardo (da parte di Neil Halstead, quasi in solitaria) di scomporre e ricostruire a piacimento, di ibridare un suono già iconico con la modernità e con la musica elettronica, lavorando di sottrazione e prendendo vie sempre più laterali e tortuose.

Nel frattempo, però, il pubblico fedele (e un po’ intransigente, come si addice a dei “fedeli”, appunto) è rimasto e, nei successivi vent’anni di inattività sotto la sigla Slowdive, non ha mai abbandonato il culto che, grazie a internet e alle notoriamente insondabili dinamiche della musica pop, si è andato infoltendo, tanto da rendere il quintetto inglese, almeno in retrospettiva, il capostipite e lo zenith dello shoegaze (quel genere inventato all’inizio degli anni novanta dalle riviste musicali inglesi e dalle stesse poi tanto denigrato e dato per morto dopo pochi mesi e che, invece, tenace e resiliente, ha continuato a crescere e prosperare, vitale e creativo, per oltre trent’anni, fino a in nostri giorni).
Di tuffi, insomma, nella loro carriera musicale (e, probabilmente, nella loro vita), Neil Halstead (chitarra e voce), Rachel Goswell (chitarra e voce), Christian Savill (chitarra), Simon Scott (batteria) e Nick Chaplin (basso) -sempre loro, sin dall’inizio- ne hanno davvero fatti tanti. E, oltre all’ebbrezza del volo e al brivido dell’immersione (lenta, naturalmente), hanno certamente sperimentato anche qualche bella caduta.

Se l’omonimo album del 2017 era stato concepito e salutato come una vera e propria rimpatriata sonora, tanto che i consensi questa volta, come una sorta di risarcimento tardivo, erano stati unanimi, per il nuovo tuffo, atteso sei anni, la band più rappresentativa dello shoegaze ha preferito prendersi maggiore libertà.
Non che nel nuovo album non ci sia quel suono che è oramai familiare a generazioni di appassionati, ma in Everything Is Alive, opera sopraffina che abbaglia con le sue sonorità dalle forti tinte elettroniche, c’è più luce e ottimismo.

Just For A Day e Souvlaki (insieme ai primi EP e alla raccolta Blue Day) sono stati composti registrati e suonati, così come l’omonimo album del 2017 (una fresca rivisitazione di un suono noto e amato), per raccontare e far rivivere all’ascoltatore quella fase del tuffo che è l’immersione: sonorità lente e languide, avvolgenti, chitarre compresse, filtrate con echi e ritardi, spazi che, sebbene dilatati, erano sempre pieni, con le voci di Halstead e Goswell che, sognanti e ovattate, avviluppavano l’ascoltatore, lo accarezzavano, lo stordivano.
Everything is Alive e, seppur in maniera differente, Pygmalion restituiscono, invece, la sensazione del volo. Un volo che, in ogni caso, pur consapevole dell’inevitabile caduta finale, riesce a prescinderne, quantomeno per un momento.

Negli otto brani che compongono questo nuovo capitolo, così, benché, soprattutto a un primo impatto, ci si trovi nuovamente in presenza dei suoni emotivi e delle atmosfere coinvolgenti che hanno reso gli Slowdive la band di culto che sono oggi, grazie ad arrangiamenti ricercati, chitarre intrise di riverbero, ritmiche avvolgenti, la suadente voce di Neil e i cori celestiali di Rachel (forse un po’ troppo in secondo piano), le sonorità della band si fanno più aperte, ed è la luce abbagliante del sole sopra di noi -e non il buio degli abissi che ci viene incontro- quella che intravediamo una volta spiccato il volo.

Everything is Alive è, in qualche modo -quasi immemore del glorioso passato della band- un prodotto dei tempi recenti: le sue canzoni, sia quelle più immediate e increspate di dolcezza e luce, che quelle più compassate e pensose, infondono un senso di speranza e di quiete in un periodo in cui tutti noi ci stiamo ancora riprendendo da alcuni anni devastanti (durante i quali Rachel Goswell e Simon Scott hanno perso i propri genitori).
La scelta, a questo punto, era semplice: continuare con l’immersione, con il rischio di finire l’ossigeno e non riemergere più, o provare nuovamente a elevarsi, a combattere la gravità che ci tiene avvinti a questo pianeta in disfacimento.
Non è tutto rose e fiori, Everything Is Alive, non ci sono solo Kisses -il brano più pop che abbiano mai scritto- o la propulsiva e coinvolgente Skin In The Game, ma anche passaggi più sobri e compassati come la suggestiva ballata Prayers Remembered -perfetto connubio tra l’Halstead solista e le radici sixties della band- e commistioni a tratti spiazzanti tra sonorità psichedeliche, elementi elettronici e delicate sfumature ambient, come in Andalucia Plays e Alife.

Ma, nato dai demo casalinghi di Halstead, incentrati sulla ricerca che stava conducendo sui sintetizzatori modulari, Everything Is Alive è un album che riesce -forse solo dopo ripetuti ascolti- a lasciarsi indietro ogni affanno, ogni pesantezza (la terra, la gravità), soprattutto grazie al contributo collettivo della band che, stavolta, ha deciso di andare oltre i confini autoimposti (con un certo disappunto di non pochi adepti della primissima ora) grazie a brani articolati come Shanty, nella quale si possono sentire quei sintetizzatori pulsare attraverso sonorità fluttuanti, o The Slab, o, ancora, con il kosmischeshoegaze di Chained To A Cloud. Un lavoro eclettico e ottimista, una via di fuga dall’oscurità e dal dolore.

Con Everything Is Alive gli Slowdive hanno deciso di continuare a raccontare la loro storia, quella di un lungo tuffo, ma, stavolta, si sono concentrati sul volo e hanno avuto la capacità (straordinaria per artisti della loro generazione) di non pensare al finale.

3 pensieri su “Slowdive – Everything Is Alive

  1. Pingback: Mary Lattimore – Goodbye, Hotel Arkada | Indie Sunset in Rome

  2. Pingback: Le firme di TRISTE©: il 2023 di Peppe Trotta | Indie Sunset in Rome

  3. Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2023 | Indie Sunset in Rome

Lascia un commento