Stasera, per me, sarà un po’ come la chiusura di un cerchio, un concetto tanto caro agli anglosassoni, da cui, inevitabilmente, grazie a cinema, musica e letteratura, anche noi “latini” ci siamo fatti influenzare in maniera quasi inconsapevole.
Che sia un atteggiamento autoctono o meno, in ogni caso, mi sembra vero che la vita proceda per cicli, per periodi anche molto lunghi che, una volta aperti, hanno bisogno di una chiusura.
Ebbene, quando stasera alla radio parlerò degli Slowdive, sentirò in qualche modo di essere arrivato alla chiusura di un cerchio. Perfetto.
Nel 1990, quasi per caso, ebbi l’opportunità di condurre un programma radiofonico per una piccolissima emittente locale e, naturalmente, immerso già da anni nella musica, non mi feci scappare l’occasione.
Quel programma, che si sarebbe dovuto chiamare “Dead Poets’ Society”, ma che finì per chiamarsi “L’Attimo Fuggente” per venire incontro alle esigenze dell’emittente (e dei suoi ascoltatori, all’epoca poco avvezzi a termini stranieri) fu per qualche anno uno dei miei principali interessi e il mio maggior sfogo musicale.
Fu grazie a (o a causa di) quella trasmissione radiofonica che cominciai a seguire le novità musicali più assiduamente e a tentare di tenermi al passo, acquistando le riviste musicali inglesi e recandomi sempre più spesso a Roma alla ricerca di nuovi dischi da trasmettere.
In una delle mie tante spedizioni mi imbattei in due e.p. 12″ dell’etichetta Creation (che già seguivo con grande attenzione, visti i grandi nomi che facevano parte del suo roster: House Of Love, Felt, Primal Scream, Biff Bang Pow e poi My Bloody Valentine e Ride) che acquistai a scatola chiusa, pur non avendo mai sentito nominare le band, entrambe esordienti: il primo era Song Of A Mustang Ford degli Swervedriver, uscito l’estate precedente, il secondo l’esordio degli Slowdive, appunto, intitolato semplicemente Slowdive.
Sono quasi certo che mandai in onda Slowdive il giorno stesso, appena tornato dalla mia trasferta romana. Probabilmente non avevo neanche sentito il brano che scoprii, così, insieme allo sparuto gruppo di ascoltatori che abbastanza assiduamente seguiva il programma.
Fu, inevitabilmente, una folgorazione. E non solo per me. Quel pomeriggio arrivarono alla radio almeno 5 o 6 telefonate (che non è la stessa cosa che mettere un “like” attraverso uno smartphone o un pc) e tutte chiedevano solo qualche notizia (che non avevo) su questa nuova band fantastica che suonava una new wave dilatata e romantica (la parola shoegaze, almeno nella provincia pontina, non era ancora arrivata).
Gli Slowdive diventarono, anche grazie agli altri due e.p. (Morningrise, uscito solo un paio di mesi dopo, e Holding Our Breath, del giugno 1991), un appuntamento fisso dell’Attimo, e probabilmente una delle poche band che sentivo davvero di aver scoperto (per quanto, naturalmente, altrove erano piuttosto noti ben prima che una piccola radio locale di provincia li trasmettesse).
Li sentivo miei come poche altre band, anche perché il loro suono trionfalmente malinconico era la perfetta colonna sonora del passaggio dalla cupa adolescenza a un periodo se non proprio felice, almeno caratterizzato da maggiori slanci e speranze (la maggior parte delle quali poi frustrate, ma questa è un’altra storia).
Attesi con ansia l’uscita di Just For A Day, l’album d’esordio che non si fece attendere troppo: nel settembre del 1991, però, cominciai a leggere le prime recensioni ma, nonostante fossero passati pochi mesi dal successo di critica e pubblico degli e.p., le riviste inglesi parlavano di un album “triste e privo di idee” e di “terribile delusione”.
Così, quando finalmente riuscii a mettere le mani sul disco ero terribilmente preoccupato temendo che la “mia” band, quella grazie alla quale mi ero costruito anche un po’ di credibilità locale (e avevo anche ricevuto qualche avance) mi avesse abbandonato quasi prima di cominciare.
Non fu necessario neanche arrivare alla fine del lato A per capire che le cose non sarebbero affatto andate così: Just For A Day manteneva completamente le promesse degli e.p. e non tradiva assolutamente le aspettative, almeno per chi, a differenza delle riviste inglesi, non si ponesse in maniera preconcetta contro lo shoegaze (genere musicale che loro stesse avevano inventato, tra l’altro).
Il suono e la scrittura del gruppo di Reading non erano cambiati: le chitarre compresse, filtrate con echi e ritardi, riempivano gli spazi. Le magiche voci di Neil Halstead e Rachel Goswell, sognanti e dilatate avvolgevano l’ascoltatore con calore e lentezza. Se è vero che l’eco di My Bloody Valentine e Cocteau Twins era presente, il suono degli Slowdive era già personale e nuovo.
Le nove canzoni di Just For A Day erano caratterizzate da uno spesso muro di suono nelle quali le chitarre onnipresenti e abrasive venivano bilanciate dalla soavità delle voci (oh, Rachel…) e, seppur probabilmente poi superate in quanto a songwriting da quelle contenute nel successivo e splendido (e altrettanto denigrato) Souvlaki, rimangono il culmine di un processo di “romanticizzazione” della new wave e del post-punk. Difficile chiedere di più all’esordio di una giovane band.
Stasera, quando manderò in onda Sugar For The Pills, tratta dal loro primo album a distanza di oltre venti anni dall’ultima uscita ufficiale, in qualche modo rinnoverò l’emozione provata nell’inverno di tanti anni fa, quando, insieme a pochi ascoltatori, mi imbattei in qualcosa che riconoscemmo subito come magico.
Grazie a Neil e Rachel adesso posso davvero dire che un cerchio sia chiuso.