Marta Del Grandi – Selva

Francesco Amoroso per TRISTE©

La vita mi si confonde.
Si attorciglia su sé stessa.
I ricordi estivi più indelebili perdono le foglie

e i giardini verdi della mia memoria
si imbiancano di neve fresca.

(Michael Bible – L’ultima cosa bella sulla faccia della terra)

Mentre nella nostra nicchia di appassionati di musica ci perdiamo a disquisire se sia necessario o meno, perché una proposta artistica possa considerarsi valida, che questa presenti tratti sperimentali marcati e si discosti in maniera decisa e drastica dal mainstream, altrove nessuno si pone queste domande oziose e perniciose e continua a scoprire e supportare talenti.
Non è quindi un caso che anche gli artisti nostrani più validi siano spesso spinti (o, probabilmente, costretti), per potersi esprimere liberamente ed evitare inutili incasellamenti, a guardare altrove.
Marta Del Grandi è, in questo senso, un caso eclatante.

Nata in Italia, Marta è, da sempre, una musicista, cantante e autrice eclettica che, piuttosto che abbracciare stilemi preconfezionati, preferisce raccoglie influenze vicine e lontane e unire vari generi, per creare un proprio stile unico.
E, naturalmente, di lei si sono accorti e innamorati, prima all’estero che da queste parti (dove, probabilmente, non le avrebbero perdonato mai le magnifiche aperture al pop delle sue canzoni).

Originariamente Del Grandi ha studiato canto jazz al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano,  si è trasferita in Belgio per completare e perfezionare i propri studi (e lì ha scritto le sue prime canzoni, confluite in un album, Invertebrates, uscito a nome MartaRosa nel 2016), per poi visitare la Cina e il Nepal, dove ha insegnato al Conservatorio Jazz di Kathmandu, prima di tornare in Italia dove ha cominciato a lavorare per introiettare influenze e ispirazioni che aveva assorbito.
E’, in questo modo, partito il suo nuovo percorso artistico e sono nate le sue nuove canzoni, sono emersi schemi peculiari, le voci si sono adagiate su sintetizzatori elettronici, strutture classiche e onde sonore ambientali.
Il suo stile vocale, improntato al jazz, è maturato e si è fatto più eclettico: ha abbracciato il folk, il pop e i suoni della West Coast, divenendo etereo, avvolgente, esotico, sperimentale e, allo stesso tempo, immediato e leggiadro: una presenza camaleontica che controbilancia e supporta la sua musica e allo stesso tempo ne è il fulcro. La prestigiosa Fire Records si è accorta di lei e, a fine 2021 le ha dato l’opportunità di pubblicare il suo album di debutto per l’etichetta, Until We Fossilize.

Ora, a due anni da quell’esordio, coraggioso e di difficile classificazione (e per questo non del tutto compreso dalle nostre parti), Del Grandi ritorna con Selva, lavoro intricato e scintillante, caratterizzato da un più spiccato ed elegante bilanciamento tra sonorità immediate e ricerca sonora.
Selva, scritto principalmente in tour e a Berlino, è un intrico di paesaggi sonori eterei e canzoni di straordinario impatto. Se il precedente album era più sfuggente e piuttosto umbratile, qui i suoni di Del Grandi si fanno più luminosi, acquistano respiro e consapevolezza, creando raffinate e sfrontate miniature pop (Snapdragon, Chameleon Eyes, Stay), ballate elettroacustiche che si snodano eteree e ammalianti (Marble Season, End Of The World, pt.1 e 2, Two Halves, Good Story) e composizioni più audaci e articolate che, tuttavia, non perdono mai la loro freschezza (Mata Hari, Polar Bear Village, Selva).

L’uso della batteria “dal vivo”, preferita alla batteria elettronica, conferisce profondità e carattere al suono di ogni brano e le melodie pop gentili e aggraziate ne sono innervate e rese più solide e dirette. Un brano come Snapdragon, che si apre con una ritmica semplice di batteria, prima che le parti vocali comincino a sovrapporsi e che subentri il sassofono e gli effetti è un esempio perfetto della concretezza che Del Grandi è riuscita a ottenere nelle sue composizioni, senza rinunciare al carattere sognante. Chameleon Eyes, d’altro canto, pur nel suo sviluppo pop, racchiude in sé un’eccentricità che lo rende unico e canzoni quali Two Halves e la title track Selva -l’unica cantata in italiano- sono profondamente commoventi e pervase da schiva bellezza.
Arrangiato in maniera eccezionale a Ghent (in Belgio) e co-prodotto da Bert Vliegen (già al al lavoro con artisti quali Sophia e Whispering Sons), l’album è imperniato sull’interazione tra i quattro musicisti che collaborano con Del Grandi da molti anni, eppure, è un lavoro sonoramente complesso e articolato. I droni vocali, l’elettronica, l’uso del sassofono e del violoncello richiamano continuamente l’attenzione dell’ascoltatore e rendono Selva imprevedibile ed eccitante.

Emotivamente complesso, arrangiato con sublime eleganza e misura, Selva si rifà a un immaginario lontano sia dagli stilemi del cantautorato folk che da quelli dell’elettronica, soprattutto grazie alla formazione jazzistica dell’artista italiana, molto evidente nella straordinaria padronanza della voce, acuta e vellutata, spesso organizzata in layers sovrapposti, che, seppur refrattaria a rientrare in schemi prestabiliti, rende più omogeneo e pieno di carattere un album pieno di fascino, ambizioso e maturo, sognante, vivido e incantevole.

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