
Tiziano Casola per TRISTE©
Che il 2023 sarebbe stato un anno di vacche grasse l’ho ripetuto più volte durante i suoi primi mesi. Sono sicuro di averlo scritto quasi ogni volta che mi sono trovato a segnalare un nuovo album a un amico, buttando lì commenti come “grande annata”, “occhio che quest’anno…”, sempre in qualche modo convinto che le cose belle, come quelle brutte, una volta avviate tendano a moltiplicarsi in modo esponenziale, per una sorta di effetto domino.
Oggi però, ironia della sorte, proprio oggi che mi appresto a scrivere la mia classifica del 2023, oggi non ricordo – quasi – nemmeno un titolo. Anzi, scorro indietro le pagine di TRISTE© e mi accorgo di non aver ascoltato nulla di nuovo perlomeno dall’estate. Peggio ancora, di vari dischi che tanto mi erano piaciuti ricordo soltanto le copertine, sintomo che mai mi sono ritagliato il tempo di riascoltarli. Tanto ho detto, tanto ho blaterato e alla fine, credo di essermi guardato in giro, discograficamente parlando, per sei mesi scarsi.
Vale allora la pena essere onesti e mettere in classifica, innanzitutto, i dischi che ricordo. Confidando nel fatto che la permanenza nella memoria sia quanto di più alto si possa augurare a una canzone pop.
Nessuna canzone mi è rimasta scolpita in testa più di Sam and Jeanie McGreagor, opening track dell’album di James Yorkston, Nina Persson And The Second Hand Orchestra. Credo sia molto difficile, superata una certa età, dedicarsi a un ascolto in modo ripetitivo, concedersi il lusso di lasciarsi catturare dalle canzoni, perlomeno per mancanza di tempo. Beh, cara Nina Persson, sappi che questa è l’unica canzone che quest’anno è riuscita a strapparmi dalle orride distrazioni del lavoro e della quotidianità. A tal punto che non credo di esser riuscito ad andare avanti con le tracce dell’album più di un paio di volte. Mesi fa, facendo ascoltare la canzone ad un amico, siamo giunti alla conclusione che somigliasse a un ricamo, per quel suo andamento circolare. Lo trovo tuttora un paragone calzante e, dunque, che così sia: Sam and Jeanie McGreagor di James Yorkston, Nina Persson And The Second Hand Orchestra, canzone dell’anno e splendido ricamo.
Quanto a dischi, ho certamente amato Everything Harmony dei Lemon Twigs e ancor più l’omonimo album di Cut Worms. Operazione sfacciatamente mccartneyana la prima, implicitamente lennoniana la seconda.
Conferisco però il titolo di miglior album dell’anno al superlativo I Thought I Was Better Than You di Baxter Dury. Mai amato il rap, lo spoken word o qualunque nome si voglia dare a questo modo di scrivere canzoni, ma questo è un disco semplicemente perfetto. Non so nulla di Baxter Dury se non che sia il figlio di uno Dury più famoso; non ho letto i testi, ma da quelle due o tre frasi che riesco a cogliere intuisco che questo è il disco di un ex ragazzo ricco, inequivocabilmente inglese, che tenta di rivendicare la propria individualità e il proprio malessere nonostante l’appartenenza a una condizione da privilegiato. Me ne importa qualcosa? Onestamente no, l’acredine è ben espressa e la qualità delle canzoni mi pare elevatissima. Disco dell’anno? Di pancia, sì.
Il secondo posto va a The Death of Randy Fitzimmons, colossale puttanata targata The Hives, che tanto ho aspettato e che ha soddisfatto le mie aspettative oltre ogni previsione. D’altronde, concorderete con me che, superata una certa età, provare il brivido dell’attesa per un disco è oggettivamente qualcosa di raro. Poter assistere al ritorno in pompa magna dei propri beniamini di adolescenza è un qualcosa che auguro a tutti, specie quando questi non offrono alcun pretesto per sentirsi in imbarazzo (si potrà dire lo stesso per il ritorno dei Blink 182? Non scherziamo). Dio benedica gli Hives e la loro sacrosanta lezione di rock come massima forma di demenza e clownesco enciclopedismo. Sarà pure un discorso da 1976, ma io sono contento così.
Un posto sul podio lo meritano poi i Blonde Redhead, col loro Sit Down for Dinner. Il gattamortismo di Kazu, i gemelli Pace che sembrano due ricchi ereditieri vinicoltori per noia in Chianti, le citazioni pasoliniane, quei modi da appassionati d’arte contemporanea… I Blonde Redhead avrebbero insomma tutte le carte in regola per starmi sulle scatole e tutte le occasioni per dimostrarsi degli sbruffoni pretenziosi, ma questo non accade mai. Il minimalismo è sempre bilanciato da grandi idee melodiche, la componente shoegaze non è mai fine a sé stessa e non scade mai in scoregge astrali o pianti di balena. Insomma, la verità è questa, i Blonde Redhead non sbagliano mai un colpo.
Passando a quei dischi che mi hanno incuriosito, ma poi ho dimenticato, la cronologia dei miei dispositivi mi dice che ho sicuramente apprezzato Domestic Sphere di Josephine Foster (anzi l’ho anche ascoltato più volte, chissà perché lo avevo completamente rimosso), Nothing To Write Home About di Robbi Curtice (del quale non mi resta però il minimo ricordo), nonché l’album dei rocciosissimi Stepmother (ben pubblicizzato su Metal Skunk dal critico Lorenzo Centini).
Merita infine una menzione d’onore il terzo disco dell’amico e connazionale Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. Nettamente superiore al primo Mainstream, qualitativamente alla pari o poco più (questione di gusti) col precedente Evergreen, il nuovo Relax dimostra ancora una volta che i litorali del Tirreno hanno qualcosa da dire, ma uno in particolare più degli altri.